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 2015  maggio 26 Martedì calendario

«La mia vita nell’ombra». Il fondatore dei Gruppi d’Intervento Speciali, le teste di cuoio dei Carabinieri, ha scritto un libro autobiografico. Lui è il mitico comandante Alfa, 38 anni di servizio e di missioni da risolvere rapidamente e con il minor spargimento di sangue. «Mi è mancata l’infanzia dei miei figli, si sacrifica tutto per la Patria ma non ci si abitua mai all’idea di morire. La paura è con noi»

«Conto i respiri in attesa dell’ultimo, quello che non potrò raccontare». L’incipit di Cuore di rondine (Longanesi) spiega meglio di ogni altra parola la vita dell’autore: il comandante Alfa. Il fondatore dei Gruppi d’Intervento Speciali (G.I.S.) le teste di cuoio italiane, il corpo dei carabinieri specializzato nelle missioni da risolvere rapidamente e con il minor spargimento di sangue possibile. «Non ci si abitua mai all’idea di morire. Con noi viene anche la paura». Il libro racconta 38 anni di vita all’interno dei Gis, con racconti autobiografici delle missioni più importanti a livello nazionale e internazionale. Lo scenario della presentazione del libro è la sala della Protomoteca del Campidoglio. Il comandante Alfa indossa il mephisto nero d’ordinanza. Prima di parlare al pubblico, ha risposto ad alcune nostre domande.
Ha dovuto mai rinunciare a dei momenti familiari importanti a causa del suo lavoro?
«Mi è mancata l’infanzia dei miei figli. Sono loro che fanno i veri sacrifici quando manchi alla cresima o alla partita di calcio o quando non puoi andare a parlare con i professori. Poi tutto passa».
Com’è vivere nell’ombra?
«Dopo un po’ ci si abitua. Anzi, forse è meglio. Meno ci facciamo notare e meglio è. Vivere nell’ombra non è difficile, non ci conosce nessuno, facciamo la nostra vita tranquillamente».
C’è mai stata un’operazione in cui avrebbe voluto togliersi la maschera per la gioia?
«La liberazione della piccola Patrizia Tacchella. Avrei voluto gridare a tutto il mondo: “Sì, siamo stati noi del Gis a liberare la bambina"! Quella è stata un’operazione esemplare che ci crea emozioni quando ne parliamo. Quella bambina era un fenomeno. Ora so che ha due figli e sta aspettando il terzo. Sarà di sicuro una mamma eccezionale».
C’è invece qualche operazione a cui guarda con qualche rimpianto?
«Non per presunzione, ma su tutte le nostre missioni non abbiamo alcun rimpianto. Abbiamo eseguito tutto alla lettera».
E Nassiriya?
«Lì ho lasciato uno dei miei più grandi amici, Enzo Fregosi, che è morto nell’attentato. È morto da solo, senza conoscere il nemico. In realtà non c’era nessun nemico da combattere. Solo dei balordi che si sono lanciati contro la base. Lui è saltato per aria e questo me ne dispiace, anche lui socio fondatore del reparto».
Si ricorda della prima missione?
«È una di quelle di cui vado più orgoglioso: era il 1980, a Trani i detenuti avevano preso in ostaggio dieci agenti di sicurezza. Venivamo da due anni di duro addestramento. Al termine ci guardammo negli occhi e realizzammo che era tutto vero, che era una missione reale e che l’avevamo portata a termine con successo. Eravamo diventati operatori del Gis»
C’è mai stato un momento in cui ha pensato di mollare?
«No anzi, questo è un lavoro gratificante che ti permette di fare qualcosa che ti riempie d’orgoglio e ti fa capire il tuo potenziale. Ogni volta punti l’asticella un po’ più in alto e alla fine dici: caspita, allora so fare anche questo, proviamo a fare ancora di più».
Lei ha fatto l’istruttore per le forze armate italiane e per alcuni eserciti stranieri, come quello iracheno. È ancora in contatto con loro?
«Non sappiamo com’è la situazione lì con precisione. C’è tanta confusione in Iraq. Sappiamo solo che le forze speciali addestrate da noi si sono distinte e si stanno distinguendo».
Ha trovato difficoltà nello scrivere? Burocrazia militare, censure?
«In Italia è la prima volta che un militare scrive un libro del genere, parlando della sua esperienza di 38 anni di reparto. Non racconto tutto, ovviamente, solo le azioni più conosciute a livello nazionale e internazionale. Difficoltà iniziali... alcuni pensavano fosse inquietante. Invece parlo di come l’operatore Gis sia un essere umano, umile, un ragazzo che sacrifica propria gioventù o che ha già sacrificato, insieme alla famiglia per l’ideale di servire la Patria».