Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  maggio 26 Martedì calendario

Il dilemma di Podemos: trattare o no con la casta? Passata l’euforia per la conquista di Barcellona e Madrid, Iglesias e i suoi dovranno in qualche modo scendere a compromessi: perché per diventare il secondo partito della Spagna non gli resta che allearsi con i socialisti di Sànchez

La Stampa,

Posati i calici, smontati i palchi, l’ora del realismo è scattata anche per Podemos. E il realismo adesso significa patti, persino con la Casta. Il risveglio di Podemos, dopo la festa di Madrid e le lacrime di gioia di Barcellona, non è amaro, per carità, ma nemmeno così leggero. La verità è che «il cielo non si prende con l’assalto, ma con gli accordi», sintetizza un militante che esce dal quartier generale. Gli eredi degli indignados sono giovani, ma non ingenui, vengono da studi sofisticati e conoscono le regole del gioco. Il bivio era atteso, ma tra lotta e governo per districarsi serve raffinatezza: a novembre si vota per le generali e chi sbaglia paga subito.
La coda di cavallo che ha affascinato la Spagna, si muove più nervosamente. Pablo Iglesias fiuta l’aria e alterna, da buon politologo, pugni e carezze. Con il segretario socialista, Pedro Sanchez, non corre buon sangue: «Il colonnello ancora non mi ha scritto», lo sfotte. In passato sono volate bordate: «Lost in the Usa», diceva uno, «sono populisti bugiardi», rispondevano gli altri. Eppure i due avrebbero molto da dirsi, magari lasciando da parte quelle frecciate continue degli ultimi mesi. Le prime sensazioni sono buone, persino per ragioni di look: «Stamattina Pablo si è messo la camicia bianca come quella di Pedro», scherzano nello staff. L’interlocutore naturale è, infatti, il Psoe, rappresentante di quella «casta» (si chiama così all’italiana) contro la quale si è scagliata l’ira degli indignados.
Segnali di apertura
Dagli insulti in piazza, ora si passa ai tavoli delle trattative. Socialisti e Podemos, però, non hanno molte alternative: o trovano un accordo, o la festa dell’altra notte davanti al Museo Reina Sofia diventerà un boomerang, e il comune tornerà in mano ai popolari. Un suicidio politico per tutta la sinistra, che nessuno capirebbe. La candidata Manuela Carmena, sostenuta da Podemos, ma senza tessera e senza debiti di riconoscenza, è sicura: «Con il Psoe nessun problema, sarò sindaco». In Catalogna la situazione è diversa: Ada Colau, leader di Barcelona en Comú, per ottenere l’incarico deve avere il via libera da almeno due liste e non solo dai socialisti. Ma nessuno, a cominciare dai suoi avversari, dubita che ce la farà.
È stata una elezione perfetta per Podemos? Non proprio e lo stesso Iglesias lo ammette: «In alcune zone speravamo in risultati migliori, il cambio comincia dalle grandi città, è sempre così. Ma per noi è stato un inverno passato in trincea». I successi sono arrivati quando i viola non si sono presentati con il proprio logo, ma all’interno di piattaforme più ampie. Quando invece, nelle regioni, compariva il nome Podemos le gioie sono state molto rare. Non che loro siano estranei alle scelte dei candidati, anzi e ci tengono a sottolinearlo: «Il nome di Manuela Carmena me l’ha proposto il nostro compagno Jesus Montero - dice Pablo Iglesias - è stata una nostra scelta vincente. Lei è fantastica, ci ha criticato per un certo impeto giovanile e ha fatto bene».
Nuova era
Ma la nuova era degli accordi coinvolge tutti, a cominciare da Ciudadanos, il Podemos centrista, che ha avuto un risultato al di sotto delle aspettative, ma che comunque sarà decisivo in alcune regioni, come nella Comunità di Madrid. Il suo leader Albert Rivera ha smussato un po’ i toni: «In politica bisogna capirsi tra diversi», anche se tutta la sua campagna è stata incentrata sulla denuncia della corruzione, argomento delicato per i popolari.
Sono le sette di sera quando il premier Mariano Rajoy compare nella sala stampa del suo partito nella calle Genova. È appena finita una riunione con i dirigenti popolari, il tono non può essere che mesto, ma chi si aspetta dichiarazioni forti resta deluso: «Restiamo il primo partito, ma certo non abbiamo vinto. Abbiamo sbagliato a non essere vicini ai cittadini. Paghiamo le dure misure prese per risanare i bilanci». In ogni caso, la sua candidatura a premier non è in discussione: «Continuo a essere io».
Francesco Olivo


*****


la Repubblica

Quando le chiedono se ora cominci a rendersi conto del peso della responsabilità, la prossima alcaldesa di Barcellona, Ada Colau – l’attivista “indignata” che ha dato con successo l’assalto al potere – risponde pacata con un sorriso: «Ma io sono solo la cara visible, il volto di un movimento fatto di centinaia di professionisti, di esperti, di gente che ha preparato progetti e proposte serie per dare un futuro diverso a questa città. è tutta qui la nostra forza». Ed è lo stesso, moderato entusiasmo con cui, a seicento chilometri di distanza, in una Madrid ancora incredula per lo storico crollo dei popolari, la magistrata in pensione Manuela Carmena celebra timida, con gesti quasi impacciati, la notte del trionfo davanti a migliaia di sostenitori che inneggiano al «cambio»: «Riusciremo a fare di Madrid una città decente. Con immaginazione, allegria e creatività».
Le idee non mancano e la voglia di voltare pagina è enorme. Ma le due quasi inattese eroine di una Spagna che punta al rinnovamento sanno che il cammino è lungo e disseminato di insidie. Avranno addosso gli occhi di tutto il paese, ma anche del partito al quale non appartengono e che però ha reso possibile la loro elezione appoggiando le liste civiche con le quali si sono presentate alle municipali: Podemos capitalizza in queste ore la svolta nelle metropoli come un successo proprio. E sa che dalle capacità di gestione delle due future sindaco (Colau ha già avviato contatti con le forze indipendentiste, Carmena è pronta a incassare il sostegno dei socialisti) dipenderà in buona misura il credito politico che potranno vantare in vista delle legislative del prossimo autunno.
Arriva il momento di sporcarsi le mani, ed è probabilmente la fase più temuta all’interno della formazione di Pablo Iglesias. Perché, passata l’euforia per la conquista di un ruolo di primo piano nelle istituzioni, impensabile appena un anno fa, ora sanno che ogni decisione può nascondere una trappola. La campagna elettorale è stata un tiro a segno contro i popolari di Rajoy, ma per spedirli all’opposizione nel più alto numero possibile di giunte locali, dovranno in qualche modo scendere a compromessi. E non da una posizione di forza come avrebbero sperato fino a qualche tempo fa. Non c’è regione in cui Podemos sia riuscito a occupare il ruolo di seconda forza. Il «cambio» proclamato a gran voce vorrebbe dire, in sostanza, dare via libera a giunte di sinistra guidate nella maggior parte dei casi dai socialisti di Pedro Sánchez, che hanno resistito al vento della protesta. Un bel dilemma, perché sarebbe lo stesso atteggiamento che non più di qualche settimana fa proprio Iglesias aveva rimproverato ai post-comunisti di Izquierda Unida, grandi sconfitti di questa tornata elettorale: «Alcuni vivono molto comodi con il 12 per cento e come puntello del Psoe. Ma noi vogliamo vincere».
Piani sconvolti dal risultato delle urne: i numeri dicono che i patti potrebbero garantire alle sinistre il governo di otto regioni. In caso contrario i popolari, che hanno perso oltre due milioni e mezzo di voti vedendo sfumare le maggioranze assolute che quattro anni fa gli avevano consentito di colorare d’azzurro l’intera mappa politica spagnola, riuscirebbero a conservare il potere in alcune regioni chiave.
In casa socialista, il leader Pedro Sánchez, chiamato a una prova d’appello decisiva, tira un sospiro di sollievo perché vede consolidarsi la possibilità di ottenere senza ulteriori scossoni la candidatura alla premiership. E anche se, mesi fa, fu tra i primi a lamentarsi per la misteriosa cena segreta dell’ex premier Zapatero in casa dell’ex presidente delle Cortes José Bono con Pablo Iglesias accompagnato dal suo braccio destro Íñigo Errejón, ora capisce che probabilmente quella era la strada giusta: parlare, con discrezione, per conoscersi e valutare l’eventuale esistenza di punti in comune.
Dove invece, inconsolabili, si leccano le ferite, è nella sede Partito Popolare, al numero 13 della Calle Génova. Un arretramento era dato per scontato, ma nessuno si aspettava una débacle di queste dimensioni. Soprattutto, la perdita di due roccaforti come Madrid e Valencia è considerata un pessimo presagio in vista delle politiche. In una notte elettorale chiave, il premier si è nascosto. Rajoy è solo, e c’è già chi teme che, con lui candidato, la riconquista della Moncloa sarà un’impresa impossibile.
Alessandro Oppes