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 2015  maggio 11 Lunedì calendario

1985, il trionfo del Verona. Così una squadra di provincia con un allenatore operaio e undici calciatori incompresi si sono portati a casa lo scudetto più incredibile nella storia del calcio italiano. Un miracolo gialloblu raccontato da Gianni Mura e con i ricordi di Preben Elkjaer Larsen

Quello scudetto, bellissimo e irripetibile, basterebbe una frase di Fanna a spiegarlo: «Con Bagnoli ci siamo sentiti come uccelli fuori dalla gabbia». Per capire Bagnoli basterebbe un episodio. Nel marzo 1985, con il Verona in testa alla classifica fin dalla prima partita, l’Associazione allenatori organizzò un convegno sul tema “Evoluzione tattica del calcio mondiale”. C’erano tutti, da Trapattoni a Sonetti. Bagnoli, figuriamoci, in penultima fila. A un certo punto lo chiama il coordinatore, Marino Bartoletti, per illustrare il fenomeno-Verona. Bagnoli sale sul palco, si tocca il naso (fa sempre così quando è incerto sull’avvio) e dice: «Ecco, adesso mi tocca fare la figura dello stupido perché non c’è niente da spiegare. Dico solo una cosa: il Verona gioca un calcio tradizionale, che noi facciamo pressing lo leggo sui giornali. Io in campo non l’ho mai notato. Scusate, ma mi chiedete una ricetta che non ho».
La ricetta in realtà era già nota: «El tersin fa el tersin, el median fa el median». Ha un modo tutto suo di parlare, Bagnoli. Mescola il suo primo dialetto, milanese, con quello di Verona: dove ha giocato, ha messo su famiglia, ha allenato e vive. Cosa gli resta dello scudetto di trent’anni fa? «L’affetto della gente, in città, e dei miei giocatori. Ogni tanto ci si ritrova per una partita di beneficenza. Le feste, una ogni cinque anni. E ogni volta che vedo tutta ‘sta gente contenta mi dico che abbiamo fatto qualcosa di bello. Tutti insieme, voglio sia chiaro. I giocatori, il ds Mascetti, il presidente Guidotti, il patron Chiampan, la città che non ci ha messo pressione. E anche un po’ di fortuna: avevo una rosa di 17 giocatori per campionato, coppa Italia e coppa Uefa. Si infortunavano uno alla volta, potevo metterci una pezza».
Una rosa di 17 giocatori. Ecco perché parliamo di uno scudetto irripetibile, ma anche di un materiale umano, non solo tecnico, di cui si sono perse le tracce. Sapete in base a quali informazioni Bagnoli chiedeva questo o quel giocatore al suo amico Ciccio Mascetti? «Sfogliavo l’almanacco Panini e cercavo centrocampisti da tre-quattro gol a stagione». Era stato operaio, poi calciatoreoperaio, poi allenatore-operaio. Per capire Bagnoli bisogna aver visto il suo quartiere, la Bovisa, quando era solo prati e fabbriche. Il padre lavorava alla Fargas. Lui giocava a pallone, scalzo. «Succede mica solo in Brasile, sa?». Abitava al 104 di via Candiani, vicino alla stazione delle Ferrovie Nord, quelle dei pendolari. Lascia dopo la prima media e passa a una scuola di disegno tecnico. «Che era già lavorare. Nel doposcuola facevo cinture». E poi tazze di water, a cottimo. E poi fasce elastiche in un’officina meccanica. «Lavori che insegnano cos’è la fatica, i veri sacrifici, altro che quelli dei calciatori». Continua a giocare a pallone ed è bravo, tant’è che dall’Ausonia lo preleva il Milan, insieme all’amico Pippo Marchioro. Un giorno lo convocano in sede: Bagnoli, lei è aggregato alla prima squadra. «Ghe disi: podi no, ho il lavoro in fabbrica che s’incastra con gli orari della Primavera, ma la prima squadra è un’altra roba». E allora? «Me disen: quanto prende in fabbrica? Ventottomila al mese». E loro: facciamo 35mila, ma domani si licenzia.
Chi ha visto giocare Bagnoli lo paragona a Simeone. Lui a Verona si rivedeva un po’ in Bruni. Penso che da calciatore abbia avuto meno di quel che meritasse, ma non se ne è mai lamentato. Come centrocampista al Milan era chiuso da Liedholm e Schiaffino, come ala da Cucchiaroni. Ma è in quel periodo che matura una certezza e la porterà in panchina. «Se avevo l’8 giocavo meglio che se avevo il 7. Non è solo una questione di numeri, è anche una cosa di testa, un sentirsi al posto giusto. Certo che conta lo spogliatoio, ma devono pensarci i giocatori. Il succo del nostro lavoro è trovare per ognuno il posto giusto. Marangon ci ha detto che se ne voleva andare e così abbiamo preso Briegel. Poi Marangon rimane e ci ritroviamo con due terzini sinistri, uno spreco. Un giorno parlo con Briegel, mi dice che giocare a centrocampo è il suo sogno. Ben, ghe disi, allora alla prima di campionato te marchet el Maradona». Verona-Napoli 3-1, duello vinto da Briegel, che segna pure un gol.
Il ritiro, sempre in Trentino, a Cavalese. Albergo decoroso, lussuoso no di certo. Alla fine del ritiro Bagnoli riuniva la squadra e diceva: i miei 11 sono questi, gli altri giocheranno in caso di incidenti o squalifiche, ma devono farsi trovar pronti. Questa era la sua filosofia: parlare chiaro, e mai dietro le spalle. Brera affettuosamente lo ribattezzò Schopenhauer. Bagnoli s’informò su Schopenhauer e disse: «Non sono pessimista, sono realista. Ci sono volte che puoi indirizzare le cose, altre volte vanno come vogliono loro». La predilezione di Brera fece passare Bagnoli per italianista, dunque catenacciaro. In realtà, giocava con due marcatori fissi in difesa, a zona mista in mezzo al campo. Per inquadrare l’impresa del Verona, va detto che in campionato c’erano stranieri come Maradona, Platini, Rummenigge, Falcao, Zico, Passarella, Boniek, Brady, Junior, Socrates, Hateley, Cerezo, Diaz, Souness. E gli italiani che avevano vinto il mondiale nell’82. In quell’anno il Verona con Bagnoli è promosso in A. L’Osvaldo raggiunge un accordo con Ardiles, ma il Tottenham offre di più e l’affare salta. Nei due campionati che precedono lo scudetto il Verona arriva due volte alla finale di Coppa Italia, perdendola, e si piazza quarta e sesta in campionato. Non è una squadretta ma non sembra uno squadrone. Lo diventerà. Un po’ alla volta Bagnoli aveva richiamato suoi ex giocatori (Volpati, Fontolan, Guidetti) e concesso fiducia e spazio a giocatori ritenuti non fondamentali da squadre più grosse: Garella (Lazio), Di Gennaro, Sacchetti e Bruni (Fiorentina), Fanna e Galderisi (Juve), Marangon (Napoli e Roma), Tricella (Inter), Ferroni (Samp). Anche Fontolan era passato per l’Inter, e Volpati per il Torino. Sbagliato definirli scarti, ma incompresi va bene. Agli europei Bagnoli e Mascetti avevano notato un danesone che giocava in Belgio (Lokeren) e un tedescone del Kaiserslautern. Erano le ciliegione sulla torta.
La torta c’era già. Ingredienti: un regista difensivo e uno a centrocampo (Tricella e Di Gennaro), un terzino sinistro di spinta (Marangon), un’ala destra veloce (Fanna), libera di andare anche a sinistra, un centrocampo di cursori dotati tatticamente, una punta potente e una leggera. Il dodicesimo, che poi giocò tutte e 30 le partite, doveva essere Volpati, chiamato l’intellettuale del gruppo perché studiava Medicina. Il magnifico Volpati, lo chiamava Brera, non solo perché era pavese come lui anche se nato per caso a Novara. Mi raccontò che a Cassolnovo, il suo paese, in estate tiravano le sedie fuori dai bar e le mettevano ai bordi della provinciale, i camion passando spandevano fresco. Bagnoli l’aveva trovato alla Solbiatese: «Giocavo di punta, mi ha arretrato a centrocampo». In carriera ha fatto di tutto tranne che il portiere. Nel Verona, terzino destro o stopper o libero per tappare un buco, altrimenti a centrocampo in sintonia con Di Gennaro e le avanzate di Tricella, che era il primo contropiedista. Era una squadra solita, che in attacco s’apriva come le dita di una mano. C’era uno schema: rinvio di Garella per il petto o la testa di Briegel, deviazione su Di Gennaro e lancio per una delle tre punte. «Bagnoli mi ha insegnato il gioco senza palla», disse Tricella, che in Nazionale tolse il posto a Baresi.
L’ultima notte del 1984 la passarono tutti insieme, staff tecnico e giocatori con mogli e fidanzate. Lo staff tecnico era composto da Bagnoli e dal suo vice, Toni Lonardi, ex portiere ed allenatore dei portieri. Nessun preparatore atletico. Al momento del brindisi si alzò Fanna, un friulano che parlava pochissimo e in campo era una specie di Robben e disse: «Ragazzi, questo è il nostro anno». Fu l’unica stagione di sorteggio integrale per gli arbitri. Bagnoli, è un caso? «A me ‘sta storia dà fastidio, sembra che abbiamo vinto perché gli arbitri fischiavano diverso e ci hanno favoriti. Invece fischiavano allo stesso modo». Segue ancora il calcio? «Vado a vedere il Verona, hanno dato una tessera a me e a mia moglie. In tv faccio fatica a ricordare i nomi dei tanti stranieri. Ma non vedo ‘sto gran spettacolo. Sette-otto passaggi per arrivare a centrocampo e poi palla indietro al portiere, che barba». È stato esonerato due volte, alla prima e all’ultima panchina, Solbiatese e Inter. «Alla Solbiatese era una questione di dignità, di rispetto dei ruoli. Nell’intervallo il presidente voleva cambiare posizione a Tosetto. All’Inter l’ho vissuta come un’ingiustizia».
Pellegrini ha più volte detto di provare rimorso per quel licenziamento, che definisce il suo più grande errore da presidente. «Lo so, comunque è acqua passata. Ho scoperto com’è bello godersi la famiglia, e già allora i giocatori pretendevano tanto e davano poco». Ogni domenica, prima della partita, Bagnoli non faceva lezione, in spogliatoio. Si sedeva in un angolo e leggeva la Gazzetta. Sottinteso: non ho niente da spiegarvi, basta quel che ci siamo detti in settimana, ho fiducia in voi. Così s’è aperta la gabbia, non solo per Fanna. Ed era bello vederli giocare a memoria. Media-spettatori del campionato: 38.871. Disse Volpati il giorno dello scudetto: «Per capire veramente quello che abbiamo fatto ci vorrà del tempo». Già, e trent’anni sembrano pochi.

Gianni Mura

Intervista a Preben Elkjaer Larsen
Aveva due cognomi, qualche definizione gliel’aggiunse Brera: atleta bufalino, un incrociatore, sfondatore impetuoso. Per chi l’ha visto e per chi non c’era, va aggiunto che Preben Elkjaer Larsen arriva a Verona nell’estate del 1984 dopo aver trascinato una meravigliosa Danimarca alla semifinale degli Europei. Sarà terzo e poi secondo al Pallone d’oro.
«Avevo già 28 anni. Giocavo in Belgio, al Lokeren, da quando ne avevo 21. Tranne un secondo posto, eravamo una squadra che arrivava quarta, ottava, decima. Non è che io all’epoca sapessi molto dell’Italia, e nemmeno di Verona. Fu mia moglie a spingere. Disse: andiamo subito. Credo che tanta convinzione avesse a che fare con Giulietta e Romeo».
Eravate sposati da poco?
«Macché. Da sei anni. E sei anni di matrimonio mi parevano già tantissimi. Presi informazioni da Miki Laudrup. Giocava nella Lazio. Era certo che mi sarei trovato bene, disse che il Verona aveva buoni giocatori e che con me ci saremmo piazzati quarti o quinti».
Il primo giorno?
«Lo passai a fare le visite e a cercare casa. Ero con Briegel. Quando arrivammo al lago di Garda, mia moglie disse: ho deciso, noi viviamo qua. La casa al lago ce l’abbiamo ancora, ci vengo due o tre volte all’anno. Non ho mai accettato altre proposte da squadre italiane, ne avevo due, e non mi pare serio fare i nomi neppure dopo 30 anni, perché sentivo che avrei mancato di rispetto ai veronesi».
Cos’era lo scudetto per voi, all’inizio del campionato?
«Una parola. Una cosa lontana. Ci sentivamo forti, ma eravamo convinti che per lo scudetto servisse qualcosa di più. Avevate il campionato più bello del mondo. Io volevo accertarmi d’essere all’altezza, ma non ho mai avuto paura. Sarei stato felice anche di arrivare quarto».
In Italia si ricorda spesso che fu un campionato con il sorteggio integrale degli arbitri. Aveste 4 volte Casarin, 3 Mattei, 2 Agnolin e D’Elia: i migliori.
«Mi piace pensare che non c’entra niente. Abbiamo perso due volte in un anno. Eravamo i più forti, tutto qui. Certo, se ci sono arbitri che ti vogliono male, diventa difficile vincere. La gente cominciò a crederci presto, e noi a dire: calma, calma».
Quinta giornata. Ottobre. Verona- Juve. Lei fa gol senza scarpa. Forse quel giorno capiste.
«Feci una lunga corsa verso la porta, mi accorsi subito di aver perso la scarpa. Ma volevo solo tirare e segnare. È incredibile che in Italia dopo trent’anni ancora ricordiate quel gol. In Danimarca si dimentica più facilmente. Intorno a noi c’era tanta simpatia, anche negli altri stadi d’Italia».
Lei passava per un tipo ribelle. Il whisky, le donne. Come fu l’impatto con il rigoroso Bagnoli?
«Mi chiamavano cavallo pazzo, un danese napoletano. Ma noi danesi siamo così. Gente tranquilla a cui piace scherzare. Io ero solo più danese di altri. Mia moglie non ha mai avuto motivo di essere gelosa. Capivi subito chi era Bagnoli e cosa voleva. Un duro gentiluomo, un uomo onesto che ti chiedeva di lavorare. Sapeva che intorno a una capolista gira un cerino ogni giorno. Parlava poco per non accenderlo. Ci siamo sempre capiti guardandoci».
Si diceva che le consentisse di fumare nell’intervallo.
«Ma no, non ho mai fumato. Intendo, mai nell’intervallo. Fumavo prima e dopo. Se dopo 30 anni ancora lo dicono i miei compagni, mi sa che stanno perdendo la memoria».
Al “Guerin sportivo” mesi fa Tricella ha raccontato che dovettero insegnarle come vestirsi.
«In Belgio la cosa che contava di più era fare gol. Scoprii che in Italia contava pure vestire bene. Ogni tanto mi accompagnavano a fare spese. Ma Briegel era peggio di me. Aveva sempre la stessa tuta».
E lei portava i mocassini scalzo?
«Oh, questa poi. Non è vero. Solo d’estate. I calzini d’inverno li mettevo».
Potrà vincere mai più un altro Verona?
«Prima o poi succederà. È il bello del calcio. Venti anni prima di noi aveva vinto il Bologna, anche loro con un tedesco, Haller, e con un danese, Nielsen. Può darsi che sia la formula giusta…».
Intanto gli stranieri sono aumentati.
«Non dirò mai che sono troppi. Il calcio è cambiato, il mondo è cambiato. Ci si mescola, perché stupirsi? Mi dispiace solo che siano pochi i danesi. Non abbiamo tanti bravi giocatori».
30 anni dopo, Verona ha due squadre. Sorpreso?
«Cosa posso fare, vuol dire che la città riesce a sostenerle. Se il Chievo ce la fa a restare in A non ho problemi, ma a me importa che ci sia l’Hellas. L’Hellas in B non deve andare mai più».
Oggi commenta calcio per una tv danese. La serie A le piace?
«Non la riconosco. I ragazzi non immaginano cosa fosse. La Juventus è la squadra più forte, ma il Napoli è la più bella. Mi piace anche la Fiorentina».
Che cosa le ha lasciato Verona?
«Mio figlio Max. Ha 28 anni. È nato a Verona. Ogni volta che lo guardo, penso a voi. Ha provato a fare il calciatore, si è rotto una gamba sciando e niente, il suo destino era un altro. In questi anni, quando capitava di avere idee differenti, mi diceva: Papà, cosa vuoi farci, io sono italiano. È stata una bella avventura. Qualche volta la sera, quando chiudo gli occhi, vedo Verona».
Angelo Carotenuto