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 2015  maggio 07 Giovedì calendario

«Ho passato una notte insonne mettendo su una bilancia la droga e la vita. All’alba, aveva vinto la vita». Diario la rinascita della sorella del premier Valls. Giovanna pesava 34 chili, aveva contratto l’Hiv e l’epatite C ma «mio fratello mi è stato sempre vicino. Non credo che il libro possa nuocere alla sua carriera, anzi. Siamo fieri l’uno dell’altra»

«La mia storia non è poi così diversa da altre, ma testimoniare è un modo di guardare il problema della droga in faccia». Vent’anni di discesa all’inferno e poi la luce. Si chiama “Diario di una rinascita” l’autobiografia, pubblicata da Mondadori, in forma di lettere, appunti, frammenti di esistenza bruciata ma anche di forza e coraggio, firmato da Giovanna Valls. La sorella del primo ministro francese si firma anche con il cognome della madre, Galfetti, originaria della Svizzera italiana. Con Manuel Valls ha solo 16 mesi di differenza. Sono cresciuti nella casa parigina davanti all’isola Saint-Louis fino a quando lei ha deciso di andare a vivere a Barcellona per la prima di tante cure di disintossicazione. Ha ancora dei parenti che vivono a Bellinzona. «La mia famiglia mi è sempre stata vicina, senza di loro non sarei viva». A 38 anni Giovanna pesava 34 chili, aveva contratto l’Hiv e l’epatite C. «Ho passato una notte insonne mettendo su una bilancia la droga e la vita. All’alba, aveva vinto la vita». Sono passati 10 anni e ora questa donna dal piglio catalano, piena di allegria, è seduta nella sede dell’editore Jc Lattès. «Adesso sto bene e posso finalmente raccontare».
Perché ha deciso di scrivere?
«A casa nostra non c’era televisione, eravamo circondati da libri, dall’arte, mio padre era pittore. Un’atmosfera bella e intellettualmente ricca. La voglia di tenere un diario mi è venuta nel momento in cui ho deciso di uscire dal buco della droga, nel 2004. Sono contenta che il libro sia stato tradotto perché credo che la mia storia sia universale. Può succedere a chiunque».
Raccontare è stato anche un modo di esorcizzare il dolore?

«All’inizio erano scritti diretti a parenti e amici. Sono rimasti in un cassetto per tanto tempo. Quando sono tornata dall’ultima cura di disintossicazione in Brasile, finalmente svezzata dalla droga, ho lavorato come aiuto infermiera con gli anziani, accompagnandoli fino alla morte. Poi ho dovuto fare un trattamento di interferone contro l’epatite C per due anni. Solo nel 2011 un editore amico ha letto i miei scritti, proponendomi di fare un libro».
È stato difficile portare in pubblico la sua storia di tossicodipendenza?
«Volevo raccontare il mio percorso a voce alta, senza tabù ma neppure facendo uno strip tease. Lo considero un omaggio a tutti quelli che mi sono rimasti accanto. È anche un modo di aiutare altre persone. Si parla troppo poco delle droghe».
Come ha reagito suo fratello quando le ha detto che avrebbe fatto un libro?

«Manuel mi è sempre stato vicino. La prima persona che ha letto il manoscritto è stato lui. Si è emozionato, mi ha incoraggiato a continuare. Non credo che il libro possa nuocere alla sua carriera, anzi. Siamo fieri l’uno dell’altra».
La prima volta?
«Avevo vent’anni. Ero a casa di amici. Mi sentivo devastata dalla fine di una relazione con un uomo più grande di me. Dieci anni dopo, quando ho ricominciato a drogarmi, ero dentro a un’altra storia sbagliata, con un alcolizzato. A lungo ho avuto una forma di dipendenza emozionale. Ogni storia di droga è diversa ma c’è sempre un momento in cui bisogna sapere dire no. È quello che spiego ai ragazzi quando vado nelle scuole».
Perché è andata a disintossicarsi in Brasile?
«Non volevo usare metadone. Vedevo intorno a me che creava un altro tipo di dipendenza. Avevo bisogno di andare lontano. Sono finita nella comunità Ideaa, fondata del dottor Josep Maria Fabregas. È una clinica in mezzo all’Amazzonia. Mi hanno curato con una pianta, l’ayahuasca, che può essere pericolosa se non c’è una somministrazione controllata».
Dove l’ha portata questa rinascita?
«Sono prudente. Mi proteggo stando lontana da persone insane, in ogni senso. Ho conosciuto un uomo meraviglioso, Balthazar, che come me è sieropositivo, sua moglie è morta di Aids. Con lui ho scoperto cosa sia l’amore vero, sincero. Ho 51 anni, non ho potuto avere figli, ed è forse il prezzo più alto che pago. Ma ho i miei nipoti che adoro, e c’è la figlia di Balthazar. L’anno prossimo ci sposeremo. A volte bisogna aspettare mezzo secolo per equilibrare la propria vita».