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 2015  maggio 06 Mercoledì calendario

Quella nostalgia di un’Italia diversa che ci fa diventare un popolo di conservatori e rimpiangere lo Stato di ieri, quello che ancora non si era rassegnato all’inefficienza dei suoi uffici e alla protervia dei suoi dipendenti, che non aveva dato tutto il potere alle lobby interne e ai sindacati, che non aveva riposto la sua sovranità a Bruxelles, che non dismetteva il pubblico per rimpinguare i portafogli dei privati

Siamo in molti oggi in Italia, credo, ad avvertire dentro di noi e intorno a noi sempre più spesso pensieri e pulsioni che in altri tempi avremmo giudicato tipici di una mentalità conservatrice (e che in un certo senso lo sono davvero). La cosa è tanto più significativa in quanto riguarda persone che spesso sono state di sinistra e dicono di esserlo ancora. Nel Paese sta dunque montando una subdola ondata conservatrice?
Chiariamo innanzi tutto un punto: l’economia non c’entra. Qui da noi il «liberismo selvaggio» continua a non fare proseliti: ben pochi pensano
cioè che la proprietà debba avere più diritti del lavoro o che non debba esserci una protezione adeguata per la parte più sfavorita e fragile della società. No, l’Italia di cui sto dicendo non inclina al conservatorismo perché è sul punto di passare dalla parte del più forte. Tanto meno sul punto di iscriversi al «partito dell’ordine», che non sa neppure che cosa voglia dire.
E non c’entra neanche l’età, come pure si potrebbe pensare. Oggi tra l’altro,
si sa, è più facile semmai trovare un progressista doc tra quelli che hanno i capelli grigi che tra i ventenni. Stiamo dunque diventando conservatori per un’altra e semplice ragione: perché a petto di ciò che è l’Italia attuale ne vorremmo una diversa, e magari, per chi se la ricorda, un’Italia ancora con alcune cose, con alcune caratteristiche, che aveva quella di ieri e che sono state insulsamente gettate via. Forse più che conservatori siamo nostalgici.
Nostalgici ad esempio dello Stato. Inteso non come astratto feticcio ma come quell’insieme di organi e di funzioni di controllo e di vigilanza, preziosi al centro come nelle periferie. Nostalgici di quello Stato che non si era ancora rassegnato all’inefficienza dei suoi uffici e alla abituale protervia dei suoi dipendenti, che nei ministeri e altrove non aveva dato tutto il potere alle lobby interne e ai sindacati. Quello Stato che non aveva ancora deposto quasi per intero la sua sovranità nelle fauci del «mostro freddo» di Bruxelles, e neppure si era ancora arreso ai cacicchi regionali o ai voleri di qualche capetto dei «territori»; che non aveva ancora deciso di dismettere sempre e comunque ciò che è pubblico solo per rimpinguare, come poi si è visto, i portafogli dei privati. Nostalgici dello Stato, della Banca d’Italia, delle Sovrintendenze, dei Provveditorati, del Genio Civile, dell’Ufficio Geologico Nazionale, delle Prefetture (sì certo, delle Prefetture!): dello Stato insomma rappresentato da quelle amministrazioni che per un secolo e mezzo ci hanno consentito una convivenza in fin dei conti decente, riuscendo bene o male a disciplinare il nostro anarchico frazionismo e il nostro scarso rispetto delle leggi. 
La nuova Italia conservatrice lo è, dunque, perché la nostalgia alla fine è sempre anche desiderio di conservare. Ad esempio conservare una scuola capace di tenere a bada le famiglie e di mantenere la disciplina; con insegnanti bravi, consci del proprio ruolo e capaci di farsi ubbidire; con regole non destinate a mutare ogni tre anni; con programmi non pronubi alle novità quali che siano, alla «sperimentazione», all’«inglese», alle «lavagne elettroniche», al «mondo del lavoro», additati come altrettanti orizzonti supremi di ogni programma educativo. Una scuola ideale che forse non è mai esistita: ma la cui immagine, di fronte alla rovina presente, si rafforza ogni giorno di più come un irrinunciabile dover essere. 
O ancora, conservare le nostre città: libere dalle movide, dai pub, dalle troppe pizzerie al taglio e dai troppi negozi alla moda che chiudono dopo appena un paio d’anni ma non senza aver decretato nel frattempo la scomparsa dalle vie di barbieri e di fiorai, di ciabattini e librerie. Conservare i paesi, i borghi grandi e piccoli dell’Italia antica, con gli uffici postali, le stazioni ferroviarie, i palazzi e le opere d’arte: quel paesaggio, quelle forme di vita che legano tanti di noi al passato. Che sono il passato vivo e vitale del Paese. 
Ma c’è dell’altro e di più, mi pare, in questa piega chiamiamola pure conservatrice che sta prendendo una parte dell’opinione pubblica orientata finora diversamente. C’è la convinzione ad esempio che si debba ritornare ad onorare dimensioni antiche come le buone maniere o il senso comune, un minimo rispetto per i ruoli e le gerarchie; per il merito. S’intravede una considerazione nuova per i valori della coesione collettiva (per esempio lo spirito nazionale), accompagnata da un’insofferenza crescente verso gli atteggiamenti più conclamati di autoreferenzialità, di ribellismo, di edonismo vacuo. Si fa strada un certo distacco rispetto a forme di scientismo prometeico, di certezza laicista, verso cui prima si aderiva senza problemi. 
È di destra tutto questo? È di destra volere norme non cervellotiche, controlli efficaci, interessi collettivi tutelati, chiedere attenzione per quanto rappresenta la nostra identità umana e storica, volere un’atmosfera culturale meno succuba alle mode dei tempi? È solo uno sterile rimpianto? Corrisponde alla richiesta di cose delle quali non compete occuparsi a chi governa? Questo è forse ciò che pensano coloro che vivono nell’acquario della politichetta montecitoriesca. Sbagliando, perché dietro quanto fin qui detto si muovono in realtà due potenti convinzioni che recano con sé due significati politici clamorosi e sempre più evidenti. Prima di ogni altra cosa, che la Seconda Repubblica è stato un fallimento totale: con tutti i suoi D’Alema, i suoi Berlusconi, i suoi Bossi, i suoi Prodi e compagnia bella, con tutti i suoi partiti e con tutte le sue scelte politiche che volevano essere di rottura, o comunque «diverse» rispetto al passato, e che invece non hanno portato a nulla. E poi – e soprattutto – che dalla Seconda Repubblica non si esce né a destra né a sinistra, per adoperare un lessico antico. Si esce invece con una ridefinizione profonda di ciò che è di destra e di ciò che è di sinistra. Dove in certi casi si può essere «conservatori» stando a sinistra, o temi «di destra» possono essere fatti propri dalla Sinistra. È ciò di cui si è accorto grazie alla sua età e al suo fiuto Matteo Renzi: ed è per questo che egli sta riportando una vittoria dopo l’altra, mentre i suoi avversari interni balbettano sul nulla e dalle altre parti si agitano solo dei fantasmi o degli inutili masanielli.