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 2015  maggio 05 Martedì calendario

I medici e i chirurghi che al posto del bisturi usavano spesso la penna. Da Arthur Conan Doyle a Cechov, fino a Oliver Sacks

«Da scrittore, sono stato medico, e da medico sono stato scrittore». Così il poeta e pediatra William Carlos Williams (1883-1963) volle consegnarsi ai posteri, in un’ironica quasi epigrafe che è anche l’affresco compiuto di uno spirito eclettico: quello del medico-scrittore. 
Anatomisti delle vite altrui, patologi raffinati della parola, gli scrittori cresciuti tra virus e malattie hanno dato vita a una delle «confraternite» letterarie più interessanti. Come il tedesco Gottfried Benn: alla vigilia della prima guerra mondiale, chino sul tavolo della Morgue, camera mortuaria dell’ospedale parigino, scrisse alcune tra le poesie più affilate (senza ironia) della modernità. Cose tipo «Quando le venne aperto il petto, l’esofago era crivellato di buchi». Aveva letto Une charogne di Baudelaire? Forse, ma le poesie di Benn sono un frugare tra corpi marciti alla ricerca di una verità profonda. Realistica. 
Era medico anche Cechov, tra i cardini dell’incontro bolognese condotto da Sandro Modeo, con letture di Massimo Popolizio. Era il 1892 quando sulla rivista «Il pensiero russo» apparve un racconto di sconvolgente modernità: La corsia n. 6, ambientata in un ospedale di provincia. Nel reparto psichiatrico, il dottor Ragin cerca di reagire ai modi bestiali con i quali vengono trattati i pazienti ma alla fine giunge alla conclusione che i matti ci sono perché ci sono i manicomi e questi bisogna riempirli. Anticipando le teorie novecentesche, in Italia legate alle ricerche di Franco Basaglia, Cechov riflette sul senso da dare alla follia, un problema non solo patologico ma anche sociale. Culturale. 
Era medico anche Arthur Conan Doyle e le sue storie di Sherlock Holmes sono di per sé un piccolo trattato sul metodo induttivo. Non solo. Tra gli ispiratori della figura dell’investigatore maledetto, c’era Joseph Bell, maestro di Doyle all’università e rinomato medico legale. Chissà se questa strettissima vicinanza con la morte è all’origine della vena autodistruttiva di Sherlock, che nemmeno l’amico medico John H. Watson riesce a estirpare. Anche perché Doyle (come molti medici dell’epoca) cedette alle tentazioni dell’occultismo. 
Nel suo bellissimo Storia sentimentale della scienza (Raffaello Cortina) Nicolas Witkowski ci ricorda la popolarità del Mesmerismo a partire dal Settecento: la teoria del medico Franz Anton Mesmer era basata su un fluido universale come cardine dell’armonia e scrittori come Edgar Allan Poe ne furono sedotti. Di certo la medicina ha infiammato le pagine di Friedrich Schiller, massimo esponente della corrente romantica tardo settecentesca: lo studio dell’uomo ideale è un contrappeso della realtà fisica sezionata, analizzata, curata. 
Nel secolo scorso il medico nella letteratura è stato anche il medico di provincia: competenza scientifica unita a una morale caritatevole e vicina agli umili. La cittadella (1937) è il romanzo di uno pneumologo come Archibald Cronin, il quale spiegò così la sua doppia vita professionale: «Puoi scegliere tra la medicina o la religione. Io ho scelto il male minore». Il suo medico idealista Andrew Manson prova ad applicare idee progressiste in medicina ma si scontra con i pregiudizi. 
Cinque anni prima era stato pubblicato uno dei più grandi romanzi della medicina umana, Viaggio al termine della notte del medico condotto Louis-Ferdinand Céline, nato proprio dall’esperienza dello scrittore (come tutte le sue opere) tra i malati più poveri. Capisce che la povertà è di per sé una malattia e che va curata. Che cosa ci resta? Di certo, il bellissimo finale: «Chiamava a sé tutte le chiatte del fiume tutte, e la città intera, e il cielo e la campagna, e noi, tutto si portava via, anche la Senna, tutto, che non se ne parli più». 
Ma forse il finale più drammatico lo ha scritto uno dei medici più letti oggi, il neurologo Oliver Sacks, autore di best seller come L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello. Ha confessato di avere un tumore in fase terminale. Speriamo in un lieto fine.