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 2015  maggio 05 Martedì calendario

Al fronte con Vasilij Grossman, tra ladri, spie, eroi, peccatori da vivi che diventano santi da morti. Per Adelphi escono i taccuini che il grande scrittore russo, divenuto corrispondente del quotidiano dell’Armata Rossa, Krasnaja Zvezda annotò durante la Seconda guerra mondiale

«Se riusciremo ad avere la meglio in questa guerra tremenda e crudele sarà solo grazie al cuore grande che batte in petto al popolo, a queste anime sublimi di giusti pronti a sacrificare ogni cosa, a queste madri di figli che ora stanno dando la vita per i loro cari, con la stessa naturalezza, la stessa generosità con cui questa povera vecchietta di Tula ci ha offerto cibo, luce, legna, sale. Di anime simili ce n’è solo un pugno, ma saranno loro a trionfare». 
È un brano dei taccuini che Vasilij Grossman, il grande scrittore russo autore di quel capolavoro di tutti i tempi che è Vita e destino, divenuto corrispondente del quotidiano dell’Armata Rossa, Krasnaja Zvezda annotò durante la Seconda guerra mondiale. Quei taccuini, insieme con qualche lettera ai famigliari e qualche articolo del giornale, sono diventati ora un libro di grande bellezza, suscitatore di emozioni, che prende il cuore e la mente: Uno scrittore in guerra. 1941-1945, pubblicato da Adelphi – esce giovedì – (pagine 471, e 23, a cura di Antony Beevor e Luba Vinogradova, traduzione di Valentina Parisi). 
Grossman, nato a Berdicev, in Ucraina, nel 1905, in una famiglia della borghesia ebraica colta, amava la vita tranquilla, scriveva racconti e romanzi che erano piaciuti a Bulgakov e a Gor’kij, i suoi numi erano Tolstoj, Cechov, Raffaello e Beethoven. Occhialuto, sovrappeso, non aveva l’aspetto del guerriero: quando, nelle prime ore del 22 giugno 1941 Hitler invase l’Unione Sovietica ebbe come un sussulto dell’anima che doveva mutare la sua vita e dare un’appassionata materia ai suoi futuri romanzi. Cominciava la Grande Guerra patriottica, crollavano le certezze consolidate, non aveva più importanza il sistema burocratico stalinista al quale era ostile, con le sue purghe e i suoi delitti. Era la Madre Russia in pericolo. Dopo, la società sarebbe cambiata per sempre. Grossman, che non era neppure iscritto al Partito comunista, chiese di partire come corrispondente di guerra. Ebbe difficoltà, non era un uomo del regime, ma il generale David Ortenberg, direttore del giornale, aveva letto il suo romanzo Stepan Kol ’cugin : «Assegnatelo a noi», disse. E Grossman, dopo un rapido addestramento militare, partì per la guerra col grado di Intendente. Fu un grande testimone partecipe, sapeva vedere ciò che i giornalisti, privi del suo talento di scrittore e della sua sensibilità, non sapevano fare, mostrò umiltà, oltre che coraggio e umanità profonda. Era paziente, scrupolosamente attento, non prendeva mai appunti, annotava dopo quel che i suoi intervistati, messi così a loro agio, gli avevano detto. Riuscì a far parlare per sei ore di seguito anche uno come lo scorbutico generale Stepan Gurtiev che non spiccicava parola con nessuno. 
Gli piacevano le figure anomale dell’esercito, passò pericolose giornate accanto al cecchino Anatolij Cechov che dalla sua postazione abbatteva un tedesco dopo l’altro. Gli interessavano le vite dei soldati ignoti, le raccontava da naif che amava soltanto la verità e riteneva che dir tutto fosse il semplice dovere di chi scrive. Prendeva nota sui suoi sottili taccuini a quadretti, gli sarebbero serviti anni dopo per il suo Vita e destino, definito il Guerra e pace del Novecento, il romanzo che non riuscì a veder stampato. Fu sequestrato ancora dattiloscritto dal Kgb negli anni Sessanta, al bando. Michail Suslov disse allora che quel romanzo non avrebbe potuto esser pubblicato prima di duecento anni (uscì in Occidente nel 1980, Grossman era morto nel 1964). 
Fu angosciante, nell’estate 1941, l’implacabile avanzata del generale Heinz Guderian, con i suoi Panzer. Intorno a Kiev l’Armata Rossa perse più di mezzo milione di uomini, tra caduti e prigionieri, mentre Stalin e gli Stati maggiori non si rendevano ancora bene conto della situazione. «Un esodo. Un esodo biblico. Veicoli incolonnati su otto corsie, il ruggito straziante di decine di camion che cercano contemporaneamente di uscire dal fango, greggi e mandrie, enormi; più oltre carri scricchiolanti trainati da cavalli, migliaia di convogli coperti di tela da sacchi colorata, compensato, latta – i profughi dell’Ucraina». 
Anche Grossman è in fuga, ma a sud di Tula fa una deviazione e arriva a Jasnaja Poljana, la casa di Tolstoj. «La tomba di Tolstoj. Sopra il rombo dei bombardieri, il fragore delle esplosioni e la calma maestosa dell’autunno. Tutto così difficile. Di rado ho sentito una simile pena». 
Poi la controffensiva del generale Timošenko, Mosca è salva. Il fango, il gelo hanno fatto da muraglia. «Solo sei ore fa i tedeschi erano accampati in questa izba. Hanno lasciato sul tavolo carte, borse, elmetti. I loro corpi dilaniati dal piombo sovietico, sono riversi sulla neve. E le donne, sentendo che l’incubo degli ultimi giorni è ormai svanito, esclamano tra i singhiozzi: “Colombelli nostri, siete tornati!”». 
Le SS hanno ucciso a Babij Jar 33 mila ebrei. Le ragazze più belle, prese prigioniere dai tedeschi, sono costrette a prostituirsi nei bordelli, «Miei soldati», urla Hitler, «vi chiedo di non indietreggiare di un passo dalla terra per cui avete versato il vostro sangue». E Stalin diffonde l’ordine n. 227: «Non un passo indietro, chi si ritira è un traditore della patria». 
Grossman intervista i carristi, gli artiglieri, i piloti da caccia, i sottufficiali, gli attendenti, è attratto dalla società minuta della guerra, affascinato dal popolo: «Il russo in guerra indossa sull’anima una camicia bianca. Sa vivere nel peccato, ma muore da santo». La santità è relativa. «Il tenente Matiuško è a capo di un drappello il cui compito è eliminare i tedeschi che occupano le izbe. I suoi soldati irrompono nei villaggi e assaltano le case. Matjuško spiega: “I miei uomini sono tutti banditi, questa guerra è una guerra di banditi”. Dicono che strangolino i tedeschi con le loro mani». 
Vien la primavera, comincia l’operazione Blu, i tedeschi annientano due armate sovietiche, mirano a Stalingrado e di lì al Caucaso con i suoi giacimenti petroliferi. 
Il 23 agosto Grossman parte per Stalingrado, la 6ª Armata del generale Friedrich Paulus e parte della 4ª Armata Panzer sono vicine ai sobborghi della città. «Stalingrado è bruciata. Una città morta. (...) Bambini che vagano – molti sorridono, come impazziti. Il tramonto sopra la piazza, di una bellezza singolare e terribile. Il rosa delicato del cielo che trapela da migliaia, decine di migliaia di finestre e di tetti vuoti. (...) Un senso di calma, dopo lunghi tormenti. La città è morta, ricorda il volto di chi è spirato al termine di una grave malattia e ha trovato pace nel sonno eterno». 
Il Volga, placido e splendente, è «terribile come un patibolo». «Stalingrado è stata l’esperienza più importante della mia vita», dirà Grossman che non si ferma mai. Descrive i battaglioni operai, le ragazze che guidano gli alianti, racconta degli eroi, dei traditori, dei ladri, delle spie, di quelli che si feriscono per non combattere, delle migliaia di soldati russi fucilati, annota le invidie e le gelosie dei generali mentre i tedeschi arrivano nel centro della città, racconta la spaventevole guerriglia urbana, casa per casa, piano per piano, descrive il Mamaev Kurgan, una collina alta 102 metri che il generale Vasilij Cujkov, capo della 62ª Armata, vede e rivede per anni nei suoi incubi, come confiderà a Grossman. La 6ª Armata di Paulus viene accerchiata, è la fine. Al momento della liberazione Grossman, a Stalingrado da tre mesi, viene richiamato per far posto a Konstantin Simonov, caro al regime, autore della poesia-canzone Aspettami. Grossman non è amato dai burocrati e dal dittatore che lui non ha mai incensato e neppure nominato nei suoi articoli. Stalin, proprio quell’anno, lo cancella dalla rosa dei vincitori del premio letterario che porta il suo nome. 
Poi la corsa all’indietro, la città natale, Berdicev, dove i tedeschi e i collaborazionisti ucraini hanno ucciso 20 mila ebrei. E Varsavia, Treblinka, viene a conoscere l’inferno di quel che accadde nel lager nazista, un milione di morti nelle camere a gas e la rivolta dei prigionieri. L’articolo di Grossman fu citato come una terribile fonte credibile al processo di Norimberga. E ancora, il ghetto di Lódz, le vendette dei soldati sovietici, gli stupri delle donne tedesche, l’antisemitismo neppure troppo velato dei burocrati stalinisti. 
Dopo l’Oder, Berlino, finalmente. La Cancelleria di Hitler: «Il Reichstag. Enorme, imponente. Nel vestibolo i nostri soldati hanno acceso falò. Sbatacchiare di gavette. Aprono scatole di latte condensato con la baionetta».