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 2015  maggio 05 Martedì calendario

E ora non resta che la firma di Mattarella. Ma Renzi si mostra tranquillo sul giudizio del Presidente che lo ha rassicurato: «ci sono le condizioni per la firma». Intanto il pensiero del premier va ai dissidenti del Pd: «Non farò loro il favore di cacciarli anche se era proprio Bersani a teorizzare il dovere della minoranza di adeguarsi alle decisioni comuni»

Forza Italia, Lega, M5S. Nell’ultimo, disperato, tentativo di fermare l’avanzata dell’Italicum le opposizioni hanno provato a tirare in ballo il presidente della Repubblica, ex giudice della Corte, che ora dovrebbe rinviare alle Camere la nuova legge per «manifesta incostituzionalità». Un errore da matita blu, per come la vedono al Quirinale. Dove il capo dello Stato, che ha seguito passo passo l’iter parlamentare della riforma, ha già deciso che darà via libera alla nuova normativa. E proprio tenendo aperta sulla scrivania quella sentenza della Consulta che nel gennaio 2014 fece a coriandoli il Porcellum.
Premio di maggioranza eccessivo? Peggio della legge Acerbo di Mussolini? Per Mattarella le cose non stanno così. Tanto che la Corte costituzionale, nel bocciare il premio di maggioranza previsto dal Porcellum perché «foriero di una eccessiva sovra-rappresentazione», aggiungeva che l’incostituzionalità derivava dal non aver previsto «il raggiungimento di una soglia minima di voti alla lista» vincente. E quella soglia del 40 per cento dell’Italicum, al di sotto della quale è obbligatorio uno “spareggio” fra le prime due liste, serve proprio a scongiurare quel pericolo. Quanto alle liste bloccate, i giudici costituzionali le cassarono solo perché troppo lunghe, «tali da alterare per l’intero complesso dei parlamentari il rapporto di rappresentanza tra elettori ed eletti», non come in altri sistemi elettorali «caratterizzati da liste bloccate solo per una parte dei seggi, né con altri nei quali il numero dei candidati da eleggere sia talmente esiguo da garantire l’effettiva conoscibilità degli stessi». Una condizione che sarebbe raggiunta dall’Italicum con le “liste corte” di 4-6 nomi.
Se Renzi si mostra tranquillo sul giudizio di Mattarella, resta per intero il «problema politico» (per dirla con la ministra Boschi) di quella cinquantina di dissidenti dem che hanno votato no alla legge. Sarà il tema su cui da domani si inizierà a ragionare, anche in vista del passaggio stretto al Senato della riforma costituzionale.
Oggi tuttavia è il momento di celebrare «il risultato storico» della riforma. Con i fedelissimi, il premier a palazzo Chigi brinda con un prosecco: «Ci abbiamo messo la faccia, abbiamo rischiato di andare a casa, ma ce l’abbiamo fatta. D’ora in avanti non ci saranno più inciuci, chi vince le elezioni governa per cinque anni». Questo, fanno notare i renziani, era anche il sogno di Nino Andreatta, vero padre spirituale dell’Ulivo e maestro politico di Enrico Letta. Per questo a palazzo Chigi risultano ancora più «incomprensibili» alcune critiche arrivate oggi dai lettiani e da alcuni nostalgici dell’Ulivo. L’architettura dell’Italicum, ricorda il costituzionalista Stefano Ceccanti, riprende l’indicazione avanzata in commissione Bozzi da Andreatta nel 1984, con il suo sostegno alla «designazione del presidente del consiglio contestualmente con l’elezione delle Camere, attraverso due tornate di votazioni, l’ultima delle quali dovrebbe consistere in un ballottaggio tra i due candidati che hanno ottenuto il maggior numero di voti». Questo per dire che, nel merito, il premier considera «strumentali» molte delle critiche che sono piovute addosso alla sua legge, a partire da quelle che paventano un restringimento della democrazia.
Ma, appunto, resta intatto il problema della minoranza interna al partito. Nella guerra dei numeri i renziani la circoscrivono a 44 voti – «quarantaquattro gatti», ironizza Ernesto Carbone – mentre i bersaniani si allargano fino a 60 deputati. Sta di fatto che, da domani, maggioranza e minoranza dovranno provare a convivere sotto lo stesso tetto. «Non farò loro il favore di cacciarli – spiega Renzi ai suoi – anche se era proprio Bersani a teorizzare il dovere della minoranza di adeguarsi alle decisioni comuni». Lorenzo Guerini, lo specialista delle mediazioni nella cerchia renziana, in Transatlantico annuncia la volontà di tregua: «Il governo non farà aperture che possano essere interpretate come merce di scambio sui temi programmatici. Ma certo, come partito, dovremo discutere delle regole per stare insieme e recuperare il valore della collegialità». Messaggi in codice per quanti, nella minoranza, intendono restare legati alla ditta e non hanno imboccato – come sembrano aver fatto Pippo Civati e Stefano Fassina – una traiettoria esterna al Pd. Non a caso le parole di Guerini si specchiano in un ragionamento che Nico Stumpo, alfiere dei ribelli, svolge qualche metro più in là: «Nessuno di noi pensa a lacerazioni. Da domani saremo impegnati a costruire un’alternativa a Renzi ma nel Pd. Sarà un lavoro lungo, dovremo diventare competitivi in tempo per il Congresso del partito». Il compromesso può andar bene a Renzi. Ma intanto, per stare più tranquillo, il premier ha deciso che il posto di capogruppo è meglio che sia affidato un fedelissimo come Ettore Rosato.