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 2015  aprile 30 Giovedì calendario

La tecnologia sta uccidendo i nostri ricordi? Eco e Obrist a confronto

Alcuni mesi prima di pubblicare il suo ultimo saggio, La fine della cultura, Eric Hobsbawm mi diceva spesso di protestare contro la dimenticanza: «protest against forgetting». Aggiungeva che nell’era digitale, in cui c’è sempre più informazione, la memoria è urgente perché l’amnesia è nel cuore di questa rivoluzione. Lei ha parlato di tre tipi di memoria: la memoria organica, minerale e vegetale. Vorrei chiederle di spiegarmeli.
«Era una battuta per dare il titolo a un mio libro ( La memoria vegetale e altri scritti di bibliofilia, ndr). La memoria vegetale – visto che i libri si fanno ormai purtroppo con il legno – è quella dei libri. La memoria organica è quella del nostro cervello. E poi c’è una memoria minerale, quella del silicio: la memoria elettronica. In quel caso la mia era una polemica in difesa del libro, là dove si cominciava a parlare di una sparizione del libro cartaceo. Però il problema della memoria, che oggi mi pare particolarmente urgente, è stato anticipato negli anni Cinquanta da Isaac Asimov. In un racconto intitolato Nove volte sette o Il senso del potere, immagina che durante una guerra un blackout blocchi tutti i computer e che gli agenti dello spionaggio riescano a individuare l’unica persona al mondo che sa ancora le tabelline a memoria. Questa viene subito catturata dal Pentagono, perché è la sola che può permettere di continuare la guerra e di sconfiggere i nemici. Era un testo profetico».
Oggi in Europa è molto urgente la questione del rapporto tra memoria e identità. Il mio amico Édouard Glissant, il filosofo visionario che ha elaborato il concetto di creolizzazione, insisteva sulla necessità della tolleranza e sosteneva che spesso la memoria può essere concepita come memoria statica, non dinamica: e in questo senso diventa qualcosa che impedisce la tolleranza.

«Memoria e identità... Noi, nella misura in cui possiamo dire “io”, siamo la nostra memoria. Cioè la memoria è l’anima. Se uno perde totalmente la memoria diventa un vegetale e non ha più l’anima. Anche dal punto di vista di un credente, non ritengo che l’inferno abbia senso se ci si va senza memoria. Il patimento è dovuto al fatto di ricordare continuamente il male che si è fatto. Il paradiso – ce l’ha già spiegato Dante – è la memoria di tutto, si legge tutto, si sa tutto. Noi siamo la nostra memoria. Ciò rende la nostra vita affascinante perché con l’andare avanti, con l’invecchiare, si recuperano memorie antiche. Io ricordo adesso delle cose della mia infanzia che prima non ricordavo: quindi con gli anni si accresce il patrimonio della nostra memoria, cioè più si invecchia più si ha anima e infatti si ha più anima di un bambino di sei mesi. La memoria quindi è l’identità, ma allo stesso titolo la memoria collettiva è l’identità collettiva. Non possiamo parlare di Europa e sentirci europei se non siamo capaci di ricostituire continuamente quella che è stata l’identità europea. Quando vediamo i negatori beceri dell’Europa come l’onorevole Salvini, si tratta semplicemente di una carenza culturale: lui non sa cos’era l’Europa e quindi non può neanche parlarne. Il corrispettivo della memoria individuale è la memoria vegetale della biblioteca. L’insieme delle biblioteche è l’insieme della memoria dell’umanità. Ecco quindi che il problema della memoria collettiva si lega al problema della lettura del libro, della conservazione dell’identità attraverso – sin dai tempi alessandrini – il museo, la biblioteca d’Alessandria. Ecco la continuità della memoria. Ritorniamo al problema di oggi: c’è una perdita anche di memoria collettiva. Io cito continuamente una trasmissione andata in onda alcuni mesi fa. È una simpatica trasmissione di quiz e indovinelli, a cui vengono ammesse evidentemente delle persone selezionate anche per la loro brillantezza. C’era un gioco in cui si chiedeva in che anno si erano incontrati per l’ultima volta Hitler e Mussolini. C’erano quattro risposte – poniamo 1943, 1967, 1980, 2005. Siccome è ovvio che Hitler e Mussolini sono morti nel 1945, l’unica data era 1943. Nessuno dei concorrenti ha detto la data giusta, li hanno fatti incontrare addirittura negli anni Ottanta. Quindi delle persone normotipe dai venti ai trent’anni selezionate in quanto mediamente intelligenti avevano perso ogni memoria storica. Ed erano quattro o cinque, non uno ha azzeccato la data giusta se non l’ultimo perché era rimasta solo quella data e allora non aveva altra scelta».
In Europa, in contesti reazionari, è molto in voga appropriarsi dell’idea di memoria. Ed è una memoria molto statica. Il neuroscienziato Israel Rosenfield dice che nella neuroscienza la memoria è dinamica, non è statica, perché non c’è un luogo nel cervello dove è situata la memoria: è un processo del cervello che si riutilizza ogni giorno. Che ne pensa?

«Mi interesso di questi argomenti, ma non mi permetto di parlarne perché non sono uno scienziato. Direi che la sua domanda mi ha fatto venire un’al- tra idea – forse non è la risposta che si aspettava. C’è una conservazione della memoria tipica dei gruppi reazionari perché vogliono conservare la memoria di un passato, mentre in prima istanza i gruppi rivoluzionari tendono a cancellare la memoria: “Dimenticate tutto quello che c’era prima, ricominciamo dall’inizio”. Pensi ai futuristi: “Uccidiamo il chiaro di luna, azzeriamo tutto e cominciamo da zero”. Poi avvengono delle evoluzioni per cui anche i gruppi rivoluzionari prima o poi si riappropriano della loro memoria. Questo succede a ogni essere umano. E poi la memoria è selettiva. Noi rimuoviamo o dimentichiamo cose che ci hanno dato noia e ne ricordiamo altre che ci hanno fatto piacere, ma magari le ricordiamo in modo estremamente deformato: e questo le neuroscienze lo stanno dimostrando. Il ricordo non è mai il richiamo di un fatto oggettivo del passato, è il richiamo di un fatto su cui noi abbiamo già elaborato. Un gruppo reazionario si riappropria delle memorie che gli fanno comodo e un gruppo rivoluzionario si riappropria solo delle memorie che gli fanno comodo e le ricostruisce a proprio piacere. La memoria è sempre in movimento. Non è qualcosa che ci permette di andare in magazzino e prendere una cosa come era là – das Ding an sich, la cosa in sé – senza che nessuno l’abbia modificata. È già una cosa su cui noi abbiamo lavorato durante gli anni».
Senza padri o senza madri non c’è memoria. A che punto si uccidono i genitori?
«Possibilmente quando ci hanno raccontato già tutto. I padri, nel senso di genitori, muoiono quando hanno finito di raccontarci tutto quello che sapevano e cominciano a chiedere a noi di raccontargli qualcosa. Ricordo che mio padre passò notti intere a leggere la mia tesi di laurea, che era sulla filosofia di Tommaso d’Aquino ed era piena di citazioni latine; lui non sapeva il latino, non sapeva niente di filosofia tomistica, però se la lesse tutta. Ecco: a quel punto aveva finito di raccontare lui e stava cercando di farsi raccontare qualcosa da me. Per fortuna è morto più avanti».
Una cosa di cui non abbiamo ancora parlato sono le liste legate alla memoria. Io ho visto il suo bellissimo progetto sulle liste al Louvre.
«La lista è un modo di raccogliere tutto quello che si sa a proposito di qualcosa senza essere obbligati a organizzarlo. Si va quindi a pescare nel magazzino del già noto e si mette tutto insieme e poi si vedrà se ne esce una nuova figura. La lista mi ha sempre affascinato: anche nelle mie scritture preromanzesche, senza accorgermene, c’era sempre un gusto per l’elenco. Che funzione ha l’elenco? Ha la funzione opposta o sostitutiva alla definizione. Se io so cos’è una cosa ne do una definizione: un cane è un quadrupede così e così. Se invece non riesco a definirlo faccio un elenco di proprietà. Il primo elenco comincia con il catalogo delle navi nell’ Iliade di Omero. Non riesce a esprimere la grandezza, la forza, l’immensità dell’esercito acheo che sta sbarcando e fa un elenco delle navi. E da allora non solo si potrebbero percorrere tutti i miei romanzi e vedere quante liste ho fatto, ma mi sono divertito a raccogliere le liste degli altri e ad accorgermi che il procedimento della lista è frequentissimo nella storia della letteratura. Si va da Omero a Rabelais sino ai contemporanei. Con la mostra del Louvre ho pubblicato un libro intitolato La vertigine della lista, che è un’antologia di tutti i vari tipi di lista».
Ultima domanda. Lei ha detto: «Più vecchi si diventa più si ricorda. «Ha qualcosa da aggiungere?
«Con l’invecchiamento, se uno non ha la demenza senile o l’Alzheimer, la memoria cresce. Non è che invecchiando si ricorda di meno. Se si è in situazioni di salute normale, si ricorda di più. Uno dei fenomeni che mi colpisce e mi incuriosisce è che io da piccolo non ho mai parlato dialetto. I miei genitori parlavano con me in italiano, ma intorno a me tutti parlavano dialetto e quindi capivo benissimo il dialetto anche se non riuscivo a parlarlo. Quando da grande tornavo magari nella mia città con un amico e cercavo di parlare in dialetto mi veniva da parlare in francese perché ci sono molte analogie tra i dialetti piemontesi e il francese. Adesso parlo benissimo dialetto. Riesco probabilmente non a fare due ore di conversazione, ma insomma un po’ di interazione addirittura con proverbi, frasi fatte, espressioni scherzose che mi tornano spontaneamente, così come mi tornano spontaneamente alla memoria infinite altre cose della mia giovinezza o della mia infanzia. Il giorno della mia morte ricorderò tutto». © Bompiani 2-015

Estratto da
Codice Italia, il catalogo del Padiglione Italia della Biennale di Venezia a cura di Vincenzo Trione (Bompiani, pagg. 248, euro 50)