Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  aprile 30 Giovedì calendario

Nepal, la cremazione di massa. Così una folla silenziosa dà l’addio ai 5mila morti che bruciano tra rami profumati e incensi lungo il fiume Bagmati

Il corpo del vasaio Kamal Sedhai è adagiato su una portantina di bambù. È avvolto in un lenzuolo bianco e coperto da un mantello arancione. I famigliari cospargono la salma con fiori gialli, chicchi di riso e polvere di colore rosso. Bruciano incenso e rami profumati. Sulle rive afose del fiume Bagmati, il più sacro agli hindu, il Nepal affida oggi al cielo i suoi morti. Sotto il tempio di Pashupatinath, dedicato a Shiva creatore e distruttore, le pire all’alba sono centinaia, migliaia negli ultimi due giorni. Ai defunti vengono offerti acqua, frutta e monete per affrontare il viaggio verso gli dei. Una donna posa due mele accanto al capo di Kamal, prima che gli uomini compiano i tre giri rituali, ostacolati dalle scimmie che si inseguono, aizzate dai cani. La legna per il rogo è pronta, unta di burro e inzuccherata. Il volto del cadavere è dipinto di rubino e quando il fuoco comincia ad ardere viene coperto con spighe e collane di garofani. Dalle due rive del fiume, la cremazione di massa degli oltre 5mila nepalesi recuperati finora dalle macerie del terremoto, è seguita da una folla silenziosa. L’odore del burro si mescola a quello dell’incenso, della legna e della carne arrostita. I parenti dei morti siedono sotto tempietti affacciati sui ghat quadrati, dove le pire ardono per ore. Gruppi di yogi, di babu, di sadhu e di dalit si raccolgono per ascoltare la musica e le litanie che si diffondono dal tempio più grande, che ha segnato la storia regale delle dinastie nepalesi.
Le vittime della caste più alte e dei più ricchi bruciano a monte del ponte di Bachhareshwari, il popolo è confinato a valle. Le ceneri vengono spinte infine nel fiume assieme ai brandelli del foglio sui cui è descritta la vita del defunto. I sopravvissuti di Katmandu e dei villaggi rurali sono qui per sapere quante vite ha preteso il sisma di sabato. Lo apprendono contando le canne di bambù accumulate sopra i carri, prima di essere a loro volta bruciate con i sudari. Due canne per ogni morto: ce ne sono montagne e il fumo dai falò oscura il sole e l’Himalaya che si alza all’orizzonte. Fuori dal santuario attende una distesa di ambulanze, di pulmini, di auto e di moto. Sono carichi di sacchi nylon che, durante l’attesa, conservano ciò che resta del popolo nepalese. Per scongiurare epidemie, le cremazioni proseguono giorno e notte: l’acqua del Bagmati è nera di cenere, ma centinaia di donne la usano per lavarsi il capo e la vacche munte per offrire latte gli dei, si abbeverano. Il lento addio senza lacrime del Nepal, tributo ai morti della sua apocalisse, è un’impressionante conferma di forza e di dignità: rivela però, più delle macerie e dei bilanci ufficiali, la portata di una distruzione definitiva.
Cento chilometri più a Nord, tra le montagne del distretto di Sindhupalchowk, il tempo per contare le vittime non è ancora arrivato. Centinaia di villaggi e di fattorie isolate sono scomparsi, strade e sentieri sono interrotti, le terrazze verticali seminate a riso e a grano sono state inghiottite dalle frane. I soccorsi non riescono a raggiungere migliaia di superstiti, incapaci di scavare con le mani nelle abitazioni crollate. Le valli attorno a Trisuli, verso il Lantang, erano coperte dalle foresta. Ora sui pendii c’è solo fango, rotto da minuscole macchie azzurre, gialle e verdi. «Sono teli contro la pioggia – dice il contadino Prakash Shrestha – sotto ci sono i vivi. Singoli individui, bambini, o vecchi». Sono in trappola per il collasso delle piste e dei campi: chi è in basso non può scendere, chi è giù non può salire a salvarli. Il silenzio assoluto viene rotto da voci che gridano nomi da un versante all’altro. Le comunicazioni restano bloccate e per contarsi, i sopravvissuti si chiamano. Chi non risponde più viene depennato dall’elenco dei residenti.
Nelle valli che da Katmandu conducono a Namche Bazaar, all’Everest, a Langtang e verso Pokhara, un’ecatombe di microinsediamenti umani poverissimi e medievali conferma che il Nepal non può affrontare da solo la crisi più grave della sua storia. Al disastro umano, economico e delle infrastrutture, nell’epicentro del sisma si aggiunge quello agricolo. Il terremoto ha inghiottito campagne strappate ai monti nel corso di secoli, senza raccolti la gente sarà obbligata dalla fame ad andarsene per sempre. «Nemmeno mio figlio – dice Rishi Acharya – ha più lavoro in città e le nostre capre sono rimaste sotto la stalla. Non abbiamo cibo». Gli aiuti internazionali sono indispensabili per evitare che la catastrofe si trasformi subito in una strage, ma per restituire un futuro ai nepalesi occorrono anni di generoso impegno mondiale. L’alternativa è un prossimo esodo verso India e Cina. L’Himalaya e le valli fluviali che scendono in India restano ammassi di detriti che seppelliscono morti e vivi abbandonati, ma a Katmandu già esplodono nuove emergenze.
Da cinque giorni le immondizie si accumulano per le strade e un milione di senzatetto non dispone di servizi igienici. Gli sfollati mangiano e dormono tra rifiuti ed escrementi, che cercano invano di dare alle fiamme. Ogni giorno per qualche ora piove, i fuochi si spengono e l’aria è irrespirabile. Appena rischiara, la folla tenta irrompere nel Parlamento e prende d’assalto la stazione delle corriere. Il governo ha annunciato trasporti gratis e 250 minibus in più per chi vuole tornare nei luoghi d’origine. Ci sono le macerie da spostare, i morti da bruciare, i feriti da curare, i vivi da salvare, ma i mezzi promessi non arrivano. Invece che nei soccorsi, l’esercito viene inviato nel quartiere di Guangapu per reprimere la rivolta dei nepalesi allo stremo e indignati contro la corruzione e l’inettitudine dei loro governanti. La guerriglia a colpi di bottiglie e scatole vuote dura quasi due ore, mentre attorno alla stazione si continuano a recuperare salme da sotto pensioni e palazzi sprofondati. Solo 14, da sabato, gli estratti vivi.
Sfollati carichi di padelle e di coperte invocano le dimissioni del primo ministro Sushil Koirala. «Dopo tre giorni di silenzio – dice l’autista Kriti Bashnet – il governo ha concesso tre giorni di lutto. Ma non ci ha detto dove troveremo cibo, acqua e riparo». L’accusa ai politici è di pensare alla spartizione dei fondi stranieri, ignorando l’agonia della popolazione e costringendo chi abita a Katmandu a restare prigioniero nella capitale. Fuggire lontano dalla città distrutta e paralizzata, per chi vede sfumare anche i suoi tre dollari al giorno, è una necessità. Dopo il tramonto, le corriere in partenza sono centinaia e non riescono ad aprirsi un varco tra pulmini e moto che scoppiano di profughi del sisma. I nepalesi abbandonano l’inferno di Katmandu per consegnarsi a un abisso che ancora ignorano, che ha inghiottito il resto della loro magica patria. Una vecchia scappa in bicicletta e dice di essere diretta a Bandipur. Quattro giorni di salite: dalle manopole del manubrio e dal portapacchi pendono a testa in giù tre mazzi di galline vive e bianche.