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 2015  aprile 30 Giovedì calendario

Italicum, il sì alla prima delle tre fiducie. Ma i grandi del Pd non votano. In 38 lasciano l’aula, tra loro Letta, Bindi, Cuperlo e anche Bersani che, però, fa sapere che non ci sarà scissione: «Niente minipartito che entra in Parlamento con un misero 3%, non farò il nanetto di Biancaneve»

Il primo passo dell’Italicum è compiuto, il governo incassa la fiducia sul primo articolo con un margine ampio, 352 voti contro 207 no e c’è da immaginare che anche le altre due fiducie previste per oggi passeranno con numeri analoghi. Così come tra le fila del premier non c’è timore di non farcela a superare il voto segreto finale sulla legge la prossima settimana, malgrado una quarantina di dissidenti del Pd siano determinati a non votarla. C’è invece una palese soddisfazione per aver indebolito il fronte interno avverso con un colpo che però lascerà il segno. «Grazie di cuore ai deputati che hanno votato la fiducia, la strada è ancora lunga, ma questa è la volta buona»: il twitter con cui Renzi saluta l’ok della Camera alla prima delle tre fiducie segnala tra le righe diverse cose. Un riconoscimento a quei «responsabili» del Pd, una cinquantina, che non hanno risposto alle sirene di Bersani, Letta, Cuperlo, Bindi, Speranza e sono rimasti in aula per votare sì. Una rassicurazione che una volta approvato l’Italicum non è vero che si andrà di corsa a votare; e la conferma che questa svolta oltre a cambiare il sistema politico italiano con nuove regole del gioco, consentirà di procedere con le altre riforme, visto che il grosso è stato fatto.
Deflagra la minoranza
La sintesi che fanno i suoi uomini di questa prima giornata di passione è che «Matteo ha vinto la prova di forza sulla fiducia e la minoranza si è spaccata». Ma lo strappo nel Pd, se non produrrà una scissione che tutti a cominciare da Bersani escludono, produce una ferita che andrà ricucita: con quelli che i renziani chiamano sprezzanti «gli ex generali senza truppe» restano 38 duri e puri che non partecipano al voto. Tra loro oltre ai big ci sono Civati, Fassina, D’Attorre, Epifani. Ma il braccio di ferro tra le guarnigioni del premier e quelle di Bersani si è consumato a colpi di telefonate per strapparsi i deputati, con epicentro l’Emilia rossa da cui è partita una contraerea per dissuadere molti dei tormentati ad associarsi a l’una o l’altra fazione. Alla fine la lacerazione tra i dissidenti è netta: dopo una travagliata assemblea nella sala Berlinguer finita alle due di notte, la corrente di Speranza, Area Riformista deflagra. I bersaniani dissidenti che non votano sono una ventina, i cuperliani una decina e il resto sono lettiani e bindiani vari. Insomma non certo un grande risultato per l’ex segretario. Che ora però può far pesare il suo dissenso al Senato, dove le sue truppe pesano: la ventina di senatori capitatati da Miguel Gotor possono fare la differenza dove i numeri sono più fragili. E infatti Gotor lancia subito il messaggio sibillino che «quello di Renzi è un segnale di debolezza che riduce la base di sostegno alle riforme istituzionali». Come a dire, se la dovrà vedere con noi.
Le incognite al Senato
«Certo ora si aprono incognite sul futuro», ammettono i renziani del cerchi magico. Ma nella war room del leader, dove l’analisi è in positivo – «lo strappo è stato più contenuto di quanto si poteva aspettare, il dissenso non sarà affrontato per via disciplinare», comunica urbi et orbi Lorenzo Guerini – si pensa già a come far rientrare la spaccatura. C’è in ballo il ruolo di capogruppo che potrebbe andare ad uno di quei 50 responsabili, come il giovane Enzo Amendola, poi c’è l’apertura a rivedere la riforma del Senato confermata da Renzi. E la certezza che non ci sarà scissione.
Lo conferma Bersani quando dice «niente minipartito che entra in Parlamento con un misero 3%, non farò il nanetto di Biancaneve». E ci prova Cuperlo a negare che vi sia una strategia per liberarsi di Renzi. «La nostra è una forte critica alla scelta della fiducia, ma non siamo una setta militarizzata che vuole far cadere il governo».