Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  aprile 29 Mercoledì calendario

Reportage delle valli dell’Himalaya, lì dove i soccorsi non sono ancora arrivati. Sulle montagne di Sangachok i morti superano i vivi: le vittime sono 350, i sopravvissuti 70. Anche il villaggio di Chautara si è trasformato in una fossa comune. Una donna e un vecchio sotto il diluvio scavano a mani nude tra i mattoni di una casa spaccata a metà. Cercano cibo, due parenti e tre mucche, mescolati dal crollo

Due bambini siedono sul bordo del vuoto. La piccola Deviany ha nove anni, il fratello Battha sei. Guardano un cumulo di sassi e di fango, precipitato nel torrente cinquanta metri più in basso. La frana si è portata via la loro casa, sotto ci sono i genitori e i nonni. «Siamo andati a chiudere le capre nella stalla – dicono – quando siamo tornati non c’era più niente». A quattro giorni dal terremoto, aspettano qualcuno che li aiuti a scavare e che porti qualcosa da mangiare. Sulle montagne di Sangachok, verso il confine tra Nepal e Tibet, i morti superano i vivi. Nel villaggio le vittime sono 350, i sopravvissuti 70. Nel distretto sulle pendici dell’Himalaya vivevano 5 mila persone: di duemila non si hanno notizie. La prima scossa ha spaccato i crinali e aperto crateri. I monti appaiono sconvolti da voragini, come fossero stati bombardati. Centinaia di villaggi rurali sono stati inghiottiti dalle frane, che continuano a trascinare via edifici e campi terrazzati. Tra la valle di Katmandu e i passi che conducono all’Everest, le strade sono interrotte da massi, cumuli di fango, voragini. I corpi cremati sono 1600, ma sotto le macerie potrebbe restarne il triplo. Migliaia i feriti, stesi sotto ripari di paglia sul bordo delle risaie. Anche il villaggio di Chautara si è trasformato in una fossa comune. Una donna e un vecchio sotto il diluvio scavano a mani nude tra i mattoni di una casa spaccata a metà. Cercano cibo, due parenti e tre mucche, mescolati dal crollo. Spostano sasso dopo sasso per non rovinare i corpi dei famigliari. In montagne e nelle campagne appare evidente che il Nepal non ha le forze sufficienti per reagire alla catastrofe e per salvare chi ancora non è morto. In aree immense i soccorsi continuano a non arrivare e manca tutto: acqua potabile, cibo, medicine, elettricità, carburante, tende per difendersi dalla pioggia e dal gelo della notte. Migliaia di bambini e di vecchi restano abbandonati e ormai sono allo stremo. Gli adulti nell’ultimo decennio sono stati costretti a lasciare le montagne e a concentrarsi nelle città per guadagnare poche rupie. I superstiti non sanno se qualcuno tornerà a cercarli. La fame spinge gli abitanti a mietere il riso non ancora maturo e a bere l’acqua dei serbatoi in terra, usati per irrigare. A Dhulikhel quaranta persone sono già colpite da febbre e diarrea e supplicano chi fugge di mandare farmaci. In pochi istanti i nepalesi hanno visto arrestarsi e riavvolgersi il film della loro storia, rituffando la nazione nel suo eterno medioevo.Alle prime luci dell’alba le piste deserte che portano a Kodari si riempiono di moto, camion, corriere e pulmini. Una folla immensa di disperati gremisce anche i tetti dei mezzi, assieme a borsoni e scatole piene di galline. Va in scena la grande fuga da Katmandu. Mezzo milione di superstiti,migrati dalle regioni rurali, tentano di abbandonare la capitale, valicando edifici crollati e alberi sradicati. Hanno perso la casa e il lavoro. Con negozi e mercati chiusi, il cibo scarseggia. Un litro d’acqua fino a quattro giorni fa costava 25 rupie, ora 100. La gente non ha risorse per restare ed è terrorizzata da continui schianti e nuovi crolli di edifici pericolanti. Prima di tutto ha deciso però di tornare nei luoghi d’origine per bruciare i propri morti e per salvare i vivi. L’esodo nell’apocalisse è un gigantesco e disperato piano collettivo di soccorsi fai da te e testimonia che la popolazione sa di doversi arrangiare, senza attendere lo Stato e la comunità internazionale.«I distretti distrutti dal terremoto – dice Prakash Pandey, capo del villaggio di Panichour – sono 75. I Paesi stranieri che stanno inviando aiuti sono 24. Il nostro esercito non basta neppure per l’emergenza nella capitale. Un terzo delle aree colpite resterà abbandonata a se stessa». Chi cerca di raggiungere le zone isolate ha la speranza di trovare il sostegno della famiglia, dell’orto e dei campi. Appena le strade prendono a salire, scopre però una catastrofe che non immaginava. La vecchia Rotna Siestra, con i figli Tula e Badu, per raggiungere Dolalghat ha camminato tre giorni. Sono carichi di padelle e di coperte, trascinano un materasso. Stremati dalla fatica e dalla sete, imbevuti di pioggia, chiedono un passaggio per Swanrthok. I cellulari di mogli, figli e nipoti tacciono da sabato e hanno lasciato la bottega di Katmandu per tornare a vedere cosa è successo. Dopo un’ora di cammino la pista che si inerpica in una foresta rada di eucalipti, è interrotta da una frana. Qualcuno ha appoggiato una scala tra le due sponde del burrone e si passa solo a piedi. Appare un vasto pendio in movimento di terra rossa, sopra cui sorgevano sette villaggi. Un pastore indica cumuli di detriti sul fondo e spiega che tutto è precipitato con l’ultima scossa d’assestamento della notte. «Eravamo in trappola – dice – la montagna si muoveva ma non c’erano vie per scendere».Rotna guarda l’irriconoscibile luogo in cui è nata e con la mano si tocca prima la fronte e poi il petto. Nessuno piange, le emozioni vengono gelosamente custodite, ma questo popolo seduto sopra le sue macerie a guardare nel cielo grigio gonfio di acqua, trasmette la sensazione di un mondo di prima e di un universo del dopo privo di fisici punti di contatto. Il sisma ha tracciato anche una morfologia diversa dell’Himalaya, il sostantivo «ricostruzione» suona come un miraggio. Davanti alle rovine, i nepalesi riprendono le abitudini degli avi mongoli e indiani. Accendono le pire e bruciano i cadaveri, riempiendo le valli con colonne di fumo e di incensi. Chi può camminare va nei campi a prendere qualche ortaggio da consumare. Siedono accanto ai fuochi scavati nel terreno e fanno bollire un’acqua putrida che odora di urina. Abbassano il fieno assicurato ai tronchi degli alberi per nutrire vacche e pecore scheletriche. Scavano con le mani, con le zappe e con le forche nei cumuli di detriti che imprigionano i genitori, o i figli. Nessuno sa più immaginare un futuro diverso e personale, un destino paragonabile a quello che in questi anni i media stranieri hanno mostrato. Non c’è tempo per occuparsi di chi è vittima della medesima agonia a pochi metri di distanza, ogni energia di contadini e montanari si concentra per sopravvivere. Nei villaggi di Gorkha, Barpak e Lapaki, verso Pokhara, i morti sono 250. Un furgone carica sul cassone trenta orfani e li porta via. I vecchi rifiutano di partire. Gli ospedali devono respingere i feriti e non ci sono mezzi per condurli altrove. Molti muoiono soli e nel fango, sotto una pioggia fredda che anticipa il monsone e annuncia la prossima tragedia. Per il governo del Nepal e per la comunità internazionale questo fallimento è un scandalo e chi è qui per testimoniarlo sente la vergogna di non poter portare a sua volta soccorso. Un bambino in ciabatte attraversa la strada e scappa urlando verso una fattoria crollata. Chiede se qualcuno può tirare fuori il corpo di sua madre dalla stalla collassata. Alza nelle mani tre piccole verze e ride felice.