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 2015  aprile 24 Venerdì calendario

Sulla responsabilità civile dei magistrati e le forme di processo al processo che si moltiplicano. In un libro Caferra, già presidente della Corte d’Appello di Bari e componente del Csm, analizza minuziosamente il mondo della giustizia. Tranquilli, non si tratta di una difesa corporativa del sistema così com’è

La notizia è di qualche giorno fa: il primo ricorso in Italia sulla base della nuova legge sulla responsabilità civile dei magistrati. L’imputato, informava il Corriere, ha deciso per un’azione, una sorta di «processo parallelo» ai pm, mentre la causa è ancora in corso. Un debutto della nuova normativa particolarmente significativo, perché dimostra la varietà di implicazioni che potrà avere, sul funzionamento e la credibilità della giustizia, l’antica (e controversa) questione della responsabilità delle toghe.
Il tema è al centro del libro Il processo al processo. La responsabilità dei magistrati di Vito Marino Caferra, già presidente della Corte d’Appello di Bari e componente del Csm (Cacucci editore, pagine 203, e 18). Un’analisi minuziosa del mondo della giustizia – ruolo, necessità e limiti – e un punto di vista sullo scontro tra politica e magistratura che esce dalla contrapposizione che ha segnato gli ultimi decenni per cercare un punto di equilibrio. Se il processo è «il vero banco di prova dello Stato di diritto» scrive Caferra, le forme di «processo al processo» si moltiplicano. Ci sono quelle codificate – le varie responsabilità penali, disciplinari e civili dei magistrati – che Caferra considera appropriate, e quelle improprie, la principale delle quali, a suo parere, è il processo «mediatico» che «altera le condizioni minime del “ben giudicare”» perché «il tribunale mediatico emette le sue sentenze in tempi reali» con «un giornalismo che indica già nei titoli i colpevoli e gli innocenti». All’autore, in magistratura dal 1965, sta a cuore la funzione civile ed equilibratrice della giustizia, perché «la mediatizzazione del processo», sostiene, «può suscitare passioni incontrollate», quella «"gogna” che fa regredire l’intero sistema sociale a un’epoca pre-moderna».
Ma il libro è tutt’altro che una difesa corporativa del sistema così com’è. A cominciare dai tempi – «la durata irragionevole dei processi» come causa di tante degenerazioni – per proseguire con gli attori – «l’attuale sistema di selezione dei magistrati non risulta più adeguato» – e finire con quella che l’autore considera la deriva più pericolosa: «il magistrato protagonista», che cerca «consenso e copertura nei rapporti privilegiati con i mass media». Un fenomeno che Caferra ritiene «intollerabile», facendo anche esempi: dall’allora pm del pool di Milano, Gherardo Colombo, che, in un’intervista del ‘98 al «Corriere», critica la Bicamerale guidata da Massimo D’Alema, al presidente di sezione della corte di Cassazione Antonio Esposito che, in un colloquio con «Il Mattino», parla della sentenza che ha emesso pochi giorni prima nei confronti di Silvio Berlusconi. Ma l’autore, in particolare, stigmatizza i passaggi di campo: «Negli ultimi decenni si è realizzato, con effetti preoccupanti, un vero e proprio sistema di vasi comunicanti tra magistratura e politica». E qui gli esempi sono diversi, da Antonio Di Pietro a Michele Emiliano ad Antonio Ingroia. Una «confusione di ruoli» che l’autore considera un rischio massimo. La conclusione a cui giunge è che la stella polare per ogni magistrato debbano essere «senso della misura e del limite»: né protagonista, quindi, né burocrate. Solo così, sostiene Caferra pensando anche alla credibilità (in crisi) della magistratura, si potrà ridurre la distanza tra le attese «demiurgiche» riposte nella giustizia e la «diffusa sfiducia nella stessa».