Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  aprile 21 Martedì calendario

Sempre più cinesi vengono in Italia per studiare e sempre più italiani vogliono andare in Cina a lavorare. La storia di Jiachuan, Song e Yaopeng

Lu Jiachuan ha 27 anni ed è arrivato, da solo, in Italia nel 2008 per studiare Scienze statistiche a Bologna. Viene da Bao Ding, una città industriale di 2 milioni di abitanti a 140 km da Pechino. Parla bene italiano e nella nostra lingua riesce a scrivere anche un’intera lettera. Cerca lavoro e se dovesse trovarlo è intenzionato a restare, altrimenti tornerà in patria. «Lì ci sono più opportunità – dice – ma non voglio perdere quanto ho imparato e penso di poter essere utile alle aziende italiane che vogliono esportare in Cina». A Bologna in quanto città si è trovato «benissimo» e giudica con pari favore l’organizzazione universitaria, tanto da consigliare ai suoi amici che vivono a Bao Ding di fare la stessa esperienza. Wan Song è una giovane di 25 anni ed è da tre da noi. Viene dalla provincia di Gan Su nel nord della Cina e si sta laureando in Ingegneria dell’automazione al Politecnico di Milano. Pensa di restare in Europa massimo per altri due anni poi tornerà dalla sua famiglia e dai suoi amici, «anche perché penso di trovare lavoro più facilmente». A Milano Song ha frequentato i corsi in inglese e non parla l’italiano in modo fluente, di noi pensa che siamo «l’immagine stessa della bellezza ma andiamo troppo piano». Racconta come abbia perso la carta di credito e ci sia voluto un mese per riaverne una. Tornerà per turismo, per fare shopping e portare in Cina in regalo «i vostri fantastici oggetti di design».
Yaopeng, infine, ha 26 anni, da tre e mezzo studia Ingegneria gestionale al Politecnico di Torino, parla molto poco la nostra lingua ma è determinato a restare qui e a trovare impiego in un’azienda manifatturiera nonostante la famiglia sia rimasta a Han Dan, vicino a Pechino. Parla benissimo dell’università italiana, dei nostri brand e ci considera «un popolo elegante e accogliente».
Jiachuan, Song e Yaopeng sono tre dei numerosissimi ragazzi cinesi che vengono a studiare da noi grazie ai programmi Marco Polo e Turandot stilati di comune accordo tra i due governi. Quest’anno siamo arrivati a 4 mila pre-iscrizioni alle università italiane da parte di giovani cinesi e complessivamente negli anni tra il 2008 e il 2015 sono stati 20 mila a candidarsi. Sommati ai giovani immigrati di seconda generazione che sono andati all’università si può calcolare che nell’arco di dieci anni siano stati 33 mila i cittadini cinesi che hanno frequentato i nostri atenei di cui 3.800 si sono già laureati.
Molti di loro una volta finiti gli studi affollano, come ieri a Milano, il Career Day della Fondazione Italia-Cina, che li mette in contatto con le aziende italiane per essere assunti. Un servizio che le imprese apprezzano sempre di più tanto che siamo arrivati alla quinta edizione. Una buona parte sono marchi del lusso made in Italy ma quest’anno a testare le capacità dei giovani cinesi c’erano anche per la prima volta imprese come Pirelli, Natuzzi, Magneti Marelli e la Bank of China. Alla Fondazione per l’edizione 2015 sono arrivati in tutto 440 curriculum di cui un terzo di laureati in Economia.
Non solo cinesi. Aumenta infatti anche il numero di giovani italiani che vogliono lavorare nelle aziende che esportano e puntano sulla Cina, come Elena Zaccaron, 23 anni, che ha studiato Lingue orientali a Venezia. Per loro la concorrenza più temibile viene dai giovani cinesi che sono nati in Italia e sono perfettamente bilingui. «Hanno uno spirito di integrazione totale – racconta Elena – e i genitori, anche se sono più chiusi nei rapporti con gli italiani, spingono i figli a studiare con il massimo impegno per arrivare in alto».