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 2015  marzo 31 Martedì calendario

Gran Bretagna al voto il 7 maggio: la sfida tra Cameron e Miliband nelle elezioni più imprevedibili. Il bipartitismo sembra ormai al tramonto: né i Tory né i Labour avrebbero i numeri per governare da soli

Tra meno di 40 giorni la Gran Bretagna va al voto in un’elezione tra le più imprevedibili nella storia del paese, con i due partiti principali in crisi di fiducia, movimenti nazionalisti e populisti in ascesa, e un elettorato frammentato come non mai. «Sarà un voto sul filo di lana», ammette il primo ministro David Cameron.
I riti costituzionali sono stati eseguiti: il parlamento è stato sciolto, i deputati hanno perso il diritto ad essere chiamati «onorevoli», e Cameron, a bordo di una limousine nera, si è recato a Buckingham Palace per informare la Regina, come vuole la tradizione. La campagna elettorale è formalmente cominciata. Si giocherà sui temi dell’economia, dell’immigrazione, dell’Unione europea e dello stato sociale caro ai britannici. Ma cosa succederà al termine dei 38 giorni che separano il paese dal voto del 7 maggio nessuno osa prevederlo.
Economia contro welfare
Per Cameron, la scelta è semplice: «Potete scegliere tra un’economia che cresce e che crea posti di lavoro», ha detto di fronte a Downing Street, dove spera di rientrare da vincitore dopo il voto, «oppure potete scegliere il caos economico di Ed Miliband». Come per Bill Clinton nel 1992 («It’s the economy, stupid!»), anche per il leader conservatore tutto si gioca sull’economia. Cameron lo ripete ad ogni occasione: abbiamo rimesso in piedi il paese, ma il lavoro non è finito. Il primo ministro ha anche promesso ai cittadini un referendum per decidere se restare nella Ue, da tenersi entro il 2017.
Il suo rivale laburista Miliband guarda a quanti si sentono lasciati fuori dalla ripresa economica, e promette di potenziare il glorioso sistema sanitario nazionale. In una pagina sul «Financial Times», Miliband ha denunciato il rischio di una «Brexit» (uscita dall’Europa), citando le parole di alcuni tra i più importanti gruppi imprenditoriali nel paese, salvo essere rimproverato da alcuni di loro, tra cui la Siemens, per averli chiamati in causa. I sondaggi sono ondivaghi, per gli analisti nessuno guadagnerà la maggioranza assoluta. Così si prospetta un governo di minoranza, o un’altra coalizione come quella Cameron-Clegg.
Ago della bilancia
Ed è a questo punto che entrano in scena i partiti minori, potrebbero trovarsi in tasca le chiavi di Downing Street. Il Partito nazionalista scozzese dopo la sconfitta nel referendum per l’indipendenza della Scozia del settembre scorso è balzato nei sondaggi. Se i nazionalisti, come si prevede, manderanno a Westminster un numero consistente di deputati, sarà il Labour a farne le spese. I conservatori devono invece guardarsi dallo Ukip, il partito anti-europeista e anti-immigrazione di Nigel Farage. Il sistema elettorale lo penalizza, se porterà a Westminster 5 deputati sarà un boom ma i suoi sono consensi nelle urne sottratti soprattutto ai Tory. I Verdi tolgono consensi ai Lib-Dem.
Cambiamenti Sociali
Il paese è cambiato e con esso l’elettorato. L’appartenenza di classe, perenne ossessione del paese, non determina più necessariamente il voto, l’immigrazione ha cambiato il tessuto sociale e le priorità, e i politici «di professione» sono circondati dalla sfiducia degli elettori. Se nel passato Margaret Thatcher e Tony Blair erano riusciti ad attrarre elettori dal campo avverso, Cameron e Miliband non hanno saputo fare altrettanto. Secondo l’Economist, «la Gran Bretagna, non abituata e non adatta ad una politica multi-partitica, si ritroverà con governi deboli e instabili».