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 2015  marzo 30 Lunedì calendario

Ritratto di Cesare Battisti, l’eterno terrorista in fuga, piccolo e imbarazzante. Vive latitante da trentatre anni. Ha tolto la vita alle sue vittime. Non ha mai restituito nulla, se non recriminazioni

L’eterno terrorista in fuga Cesare Battisti – 61 anni, ex militante dei Proletari armati per il comunismo, quattro omicidi a fine anni Settanta, due ergastoli, un’evasione, i rifugi in Messico, Francia e oggi Brasile – è piccolo, magro e ha il pallore permanente dei nervi tesi. Vive latitante da trentatre anni. Ha tolto la vita alle sue vittime. Non ha mai restituito nulla, se non recriminazioni. Dice di sé: “Sono un fuggitivo, sono un poveraccio, sono innocente”. Ma imbrogliando le carte della sua storia pensa che non saldare il debito di vite umane sia nei suoi diritti. Ignora (o fa finta) che quella via di fuga intrapresa una volta per tutte, sia il nodo scorsoio che soffoca qualunque sua piccolissima ragione. Moltiplicando, tra i suoi torti, quello di essere la prova provata della irrilevanza dell’Italia nel mondo, visto che a ogni suo arresto i nostri governi promettono sfracelli diplomatici per ottenere l’immediata estradizione. Salvo poi ingoiare figuracce. Compresa quella memorabile di re Giorgio Napolitano ancora regnante (anno 2010) che scrisse, anzi implorò udienza per ottenere soddisfazione, ma fu ignorato dalle autorità brasiliane come un qualunque Gasparri.
Quei personaggi che gli somigliano
In nove romanzi gialli scritti per campare Battisti ha raccontato personaggi che gli assomigliano: uomini senza qualità, spaventati dal proprio passato, schiacciati dalla colpa e da una responsabilità che non sentono il dovere di ammettere. Uomini come lui, passati dalla grande storia della Rivoluzione, alle portinerie della vita quotidiana, con personale consuntivo annotato in appendice a L’orma rossa (Einaudi, 1999): “Ogni giorno comincia sporco. Io lo pulisco con la scopa, lo straccio, il computer e mi ci rotolo dentro”: lui è quella cosa lì. Di tanta biografia spesa, solo le sue vittime gli restituiscono una qualche profondità d’ombra e di destino, dentro a una tragedia così grande che non gli corrisponde e che neanche lontanamente si merita.
Non invidiabile è il suo presente. Nessuna “latitanza dorata”, come talvolta fantasticano i giornali, semmai una brutta casa di trenta metri quadri a Embu das Artes, un paesello dalle parti di San Paolo, 200 euro di affitto mensile, con una nuova donna e una figlia di due anni. Vive con gli ultimi spiccioli dei libri pubblicati in Francia. Fa piccoli lavori, incassa qualche colletta di ex compagni. La solidarietà che lo ha protetto negli anni francesi si è molto annacquata per generale stanchezza. Il suo cattivo carattere non gli ha mai dato una mano. Due o tre volte, in questi anni, mi è capitato di occuparmi di lui, scoprendolo il più detestato tra i pessimi italiani che ogni tanto trapelano nella schiuma delle cronache dalle loro lontane latitanze, come quelle di qualche faccendiere in fuga, qualche politico bandito, dell’ultima manciata di terroristi diventati guerrieri con il sangue degli altri, nei lontani anni Settanta del secolo scorso. Ma nessuno come Battisti – condannato nel 1985, nel 1991, nel 1993 – aizza gli inchiostri e le coscienze. Nessuno eccita più di lui i giornali, le televisioni, l’arco costituzionale dei partiti e insomma l’intera Repubblica che esce regolarmente sconfitta da questo inseguimento celibe. Proprio come l’ultima volta, tre settimane fa, quando un remoto giudice del tribunale di Brasilia ha provato a revocargli l’asilo che il 31 dicembre del 2010 gli aveva concesso il potere più alto della Nazione, il presidente Lula in persona. Arresto durato sette ore, prima di essere revocato per burocratica infondatezza, ma abbastanza da permettere a tutte le tv italiane di annunciare (e in pompa magna)“l’imminente estradizione di Cesare Battisti!”, poi svanita nel nulla della sua scarcerazione, con l’ennesima frustrazione generale.
A dispetto del tempo che dovrebbe scolorire i ricordi e i risentimenti, Cesare Battisti li moltiplica. Credo sia colpa della sua ostinazione a prenderci per fessi. A ripeterci la storiella dei falsi pentiti che lo accusano. Delle condanne senza prove. Dei processi fatti (inspiegabilmente) in sua assenza. Dello Stato italiano che lo perseguita. Dei suoi personalissimi anni di piombo sfiorati da qualche intemperanza collettiva, tanta generosa idealità, pistole a salve e lutti che non lo riguardano. Come se nel poderoso archivio di quegli eventi raccontati in cento inchieste giudiziarie, migliaia di confessioni, milioni di pagine processuali, una sola fosse stata strappata, e malamente: la sua.
I “poveri” intellò francesi
Giusto gli ignari intellò francesi, qualche signora di gran classe e la volenterosa Fred Vargas, giallista dal cuore morbido, possono ancora dargli retta e così malamente consigliarlo dai loro rifugi ben arredati. Così presi dal loro eccitante gioco di società– adotta un fuggitivo – da non aver trovato neanche il coraggio (o il buon gusto) di prenderlo a schiaffi quando disse, nell’unica intervista mai concessa a una giornalista italiana, Angela Nocioni: “Sì in quegli anni ho sparato. Ma solo contro gli uccelletti, contro gli alberi. Contro le persone mai”.
Tralasciando gli infiniti dettagli della sua adolescenza di provincia – nato a Latina nel 1954, famiglia operaia e comunista, poca scuola, molta cattiva strada – Battisti ha biografia penale persino sorprendente se vista da vicino. E non solo perché comincia violenta e in un certo senso pre-politica con piccole rapine ai supermercati, un sequestro di persona, grandi insofferenze che dopo il primo carcere lo condurranno nella Milano incendiaria del 1977. Ma perché quando la lotta armata di quegli anni matti lo inghiotte dentro al pulviscolo delle cento sigle che mimano gli stati maggiori di Prima Linea e delle Brigate rosse, è sorprendente la velocità con cui lui e i suoi trenta compagni compiono i loro delitti – quattro omicidi, altrettanti ferimenti, una dozzina di rapine in meno di due anni – come a farne i capitoli di un curriculum da presentare di corsa al rendiconto della storia.
In quella sconsiderata fretta e violento narcisismo c’è il suo carattere. Come pure in quel suo sorriso irritante che tante volte resta fissato nelle istantanee dei suoi arresti, delle sue scarcerazioni, e che sembra sempre una sfida a chi guarda, specie a quelli che gli vogliono male, cioè quasi a tutti.
Le due vittime di Udine e Milano
Secondo le condanne definitive dei tribunali italiani, Battisti partecipa e spara in due omicidi. Il primo è quello del maresciallo degli agenti di custodia del carcere di Udine, Antonio Santoro, 6 giugno 1978, che i Pac accusano di maltrattamenti ai detenuti. Il secondo è quello dell’agente della Digos, Andrea Campagna, ucciso per ritorsione dopo l’arresto di alcuni militanti a Milano, il 19 aprile 1979. Negli altri due omicidi, organizzati per essere compiuti lo stesso giorno, uno a Mestre, l’altro a Milano, Battisti ha ruolo comprovato, ma non diretto. I Pac vogliono punire due commercianti che nelle settimane precedenti avevano reagito con le armi a due tentativi di rapina. E vogliono fare propaganda armata per arruolare i soldati della malavita “nel contropotere rivoluzionario”.
Quel 16 febbraio 1979, Battisti è nel commando che uccide il macellaio veneto Lino Sabbadin, ma con il ruolo di copertura, secondo le testimonianze dei suoi compagni rei confessi. Mentre la sua partecipazione all’altro omicidio che si compie contemporaneamente a Milano è solo nella pianificazione che l’ha preceduto. La vittima è un gioielliere, si chiama Pierluigi Torregiani. Tre settimane prima ha reagito all’irruzione di due rapinatori nel ristorante Il Transatlantico, dove stava mangiando. Era armato, ha sparato, è nato un conflitto a fuoco. Sono morti un bandito e un cliente. Lui è rimasto ferito. I giornali parlano di gioielliere-sceriffo. I Pac lo condannano a morte. Venti giorni dopo lo aspettano davanti alla sua piccola gioielleria alla Bovisa, gli sparano mentre sta aprendo il negozio in compagnia dei suoi due figli adottivi e lo uccidono. Ma l’agguato ha un sovrappiù di tragedia. Torregiani prova a difendersi: cadendo spara un unico colpo di pistola che colpisce alla spina dorsale il figlio Alberto, 15 anni, condannato da allora alla sedia a rotelle, invecchiato sulla sedia a rotelle, e che in anni recenti ha detto: “Chi sta scontando l’ergastolo non è Battisti, sono io”.
“Ero in guerra ma non lo sapevo”
Ho incontrato Alberto Torregiani un paio di anni fa. Aveva da tempo pubblicato il suo libro Ero in guerra e non lo sapevo. Stava per compiere 50 anni, sette più dell’età di suo padre quando gli è morto accanto. Aveva i capelli bianchi, il viso scavato. Ma sorrideva più di quanto mi aspettassi. Mi ha detto: “Quando mi sono ritrovato sulla sedia a rotelle avevo due sole strade: uccidermi o sopravvivere. Ho scelto la seconda. E per farlo ho dovuto liberarmi dell’odio che provavo. Perché l’odio alla fine ti mangia la vita”. Mi ha raccontato di non avere mai incontrato Battisti, ma uno dei suoi compagni, Sebastiano Masala, che stava nel commando: “Mi ha chiesto un colloquio in carcere. Sono andato. Abbiamo parlato mezz’ora, mi ha detto: ho commesso una cosa orribile, mi dispiace, eravamo pazzi di rabbia, eravamo stupidi. Mi è sembrato sincero”.
Gli ho chiesto perché volesse a tutti i costi Battisti in Italia e in carcere. Mi ha detto: “Per senso di giustizia. Perché questa storia, la nostra storia di vittime del terrorismo, non vada perduta nel nulla dell’indifferenza. Perché sia un esempio positivo per i giovani di oggi: se chiedi giustizia credendoci, se chiedi giustizia con tutte le tue forze, alla fine la ottieni”.
Gli ho chiesto se lo considerasse un suo risarcimento personale. Mi ha detto: “No. Ci ho pensato tante volte, specialmente all’inizio. Non c’è nessun risarcimento personale. Non è che se lui torna in galera, io ritorno a camminare. Sarebbe bello, sarebbe semplice. Invece io resterò tutta la mia vita su questa sedia”.
Ho pensato che ci fosse più consapevolezza del valore della vita in quei sorrisi, che in tutti i libri di Battisti, in tutte le sue strampalate giustificazioni. Che sono poi sempre le stesse, gli equivoci della giovinezza, i sogni della rivoluzione, la lotta di classe. Come se bastasse amplificare le intemperanze di una generazione e le sue molto enfatizzate derive, a predisporre il salvacondotto per i singoli che su quel dramma hanno volontariamente esercitato la loro idea di potere con il furore delle armi eversato il sangue delle vittime.
Non funziona così. Prima di chiedere una “soluzione politica”, come da anni fanno gli ex terroristi ancora in fuga, bisogna offrirla. E offrirla con un gesto di riconciliazione, insieme con il coraggio di chiamarlo resa. Ma credendosi furbo, credendosi al sicuro dall’Italietta che lo insegue, Cesare Battisti farà il contrario. Continuerà il suo viaggio nascondendosi a tutti, anche a se stesso.