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 2015  marzo 30 Lunedì calendario

Micaela Ramazzotti, confessioni di un’attrice che va sempre di corsa e che si lascia sorprendere dai momenti last minute, quelli che «succedono all’improvviso». Ha lavorato con l’Archibugi, Verdone, Avati, Luchetti, Virzì (che poi è anche suo marito) e ora è sugli schermi con “Ho ucciso Napoleone” di Giorgia Farina

La ragazza della periferia romana di Axa, verso Ostia, quella zona dove Roma diventa anche città di mare, non c’è più. E non c’è più nemmeno l’attrice che, mentre compie i primi passi di carriera, ha la fortuna di incontrare il regista famoso, di innamorarsene e di farlo innamorare, di sposarlo, di farci un figlio, di recitare, da protagonista, in un film, 
La prima cosa bella, in cui l’autore proietta su di lei, sul suo personaggio, l’ombra della fondamentale figura materna.
Adesso, al posto, di quella bionda, effervescente in apparenza e malinconica in profondità, c’è Micaela Ramazzotti, moglie di Paolo Virzì, madre di due bambini, interprete diretta dai nomi più importanti del cinema italiano, in questi giorni sugli schermi con la commedia nera di Giorgia Farina Ho ucciso Napoleone, tra poco sul set, di nuovo con Virzì, in Toscana, accanto a Valeria Bruni Tedeschi, in un film che racconta l’avventura rocambolesca di due donne in fuga, dai loro problemi, e dalla clinica dove sono ricoverate.
Come si fa a tenere tutto insieme, lavoro, celebrità, marito regista, bambini piccoli?
«Io ci provo, cercando di fare una cosa che non mi appartiene affatto, ovvero organizzare, mettere ordine. Però, alla fine, le cose migliori sono quelle improvvisate, quelle “last minute”, che succedono all’improvviso, che mi sorprendono, e che mi portano in una direzione diversa da quella programmata».
Per esempio?
«In genere sono cose che vengono dai bambini, magari da un’impuntatura, “no, mamma, non andiamo lì”, si fa un’altra cosa, e viene fuori una bella sorpresa. Comunque sono sempre loro, i figli, la mia grande fonte di vitalità... Rispetto alle madri che hanno lavori più regolari, ho la grande fortuna di poter stare dei periodi a casa, ferma, tra un film e l’altro. E poi ci sono i nonni, e poi io corro, corro molto, insomma, provo a fare quello che fanno le donne del mondo».
Ha appena interpretato due figure femminili differenti, in due film, «Il nome del figlio» di Francesca Archibugi e «Ho ucciso Napoleone» di Giorgia Farina, che parlano, in modi diversissimi, di rapporti familiari.
«Sì, la famiglia è importante. Per esempio, in Io ho ucciso Napoleone, si capisce che certi comportamenti assurdi di Anita, la protagonista, sono il frutto dell’essere cresciuta dentro un nucleo familiare incasinato. E questo vale anche per i personaggi maschili. Se si è subita l’inaffettività dei propri genitori, sarà inevitabile diventare padri e madri sbagliati».
Lei ci crede nella famiglia?
«Credo nella famiglia che funziona, ma farla funzionare bene è difficile. Bisogna rispettare i sentimenti di tutti, a iniziare dai bambini che, anche quando sono piccoli, hanno i loro desideri... io cerco di stimolarli, di indirizzarli verso quello che vogliono fare».
Per diventare Anita ha adottato un look da perfida manager, scarpe fetish, tailleur ricercati, capelli scuri, trucco marcato. Come ci si è sentita?
«Anita è una specie di satanasso, una diavolessa, è stata ferita tante volte e adesso ha imparato a proteggersi... Il cinema è bello proprio per questo, lavorare sul proprio fisico, non sapere chi sei, provare ad essere qualcun altro, lasciarsi andare, nel mondo del regista...».
In quale mondo si è trovata meglio, con quale autore ha imparato di più?
«Di Francesca Archibugi sono innamorata, da lei mi sento adottata, mi piace il suo modo di raccontare, il suo sguardo, e anche il suo lato punk, che esiste, insieme a quello materno».
E con Carlo Verdone?
«Sono romana, e sono cresciuta con i suoi film, è un regista buono, mi ha lasciata libera di giocare, ci siamo molto divertiti».
E da Avati che cosa ha imparato?
«Pupi è un capocantiere senza fronzoli, mi ha insegnato a non aver paura, mi ha presa per mano e mi ha accompagnata».
E da Daniele Luchetti?
«Mi ha fatto capire che potevo essere un’altra donna, non leggera, nè frivola, nè disponibile... mi ha detto “basta ridere”, ho compreso che potevo essere diversa e, nel suo film Anni felici, nel ruolo di Serena, sono diventata una donna che cerca, esplora».
Da Virzì non glielo chiedo, è suo marito, i piani si confondono...
«No, sul set, non cambia niente. La cosa che mi piace di più è sempre la stessa, abbandonarmi alla visione dell’autore».
Quanto è diversa Micaela dalla ragazzina di Axa che aveva iniziato con i fotoromanzi?
«Mica tanto... da ragazzina avevo un po’ una doppia vita, con gli amici ero spericolata e trasgressiva, a casa, invece, facevo la brava figliola tranquilla, uscivo vestita perbene, ma mi portavo il cambio in bici, levavo le scarpe, mettevo gli anfibi... Anche adesso, in fondo, sono la mogliettina premurosa che si dedica alla famiglia, poi, sul set, divento un’altra... Due vite, come allora».