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 2015  marzo 30 Lunedì calendario

La marijuana made in Italy che ci guarirà (forse). Viaggio nel centro del ministero dell’Agricoltura dove si coltiva cannabis a fini terapeutici: tutti gli effetti sulla salute e sugli affari della criminalità

Visto da fuori sembra un istituto tecnico per l’agricoltura: quattro file di persiane rosse, due piccole serre e le papere che attraversano il vialetto pedonale. L’unico indizio per capire che in questo edificio c’è la più avanzata piantagione di cannabis d’Europa è il grande cartello bianco che campeggia sul portone di ingresso: “Area videosorvegliata”. Siamo al Cra-Cin di Rovigo, Centro di ricerca per le colture industriali. Un chilometro più a sud c’è la stazione dei treni del capoluogo, poco più a ovest l’autostrada. All’interno, oltre cinquecento piante di cannabis di un centinaio di varietà differenti.
Qui, lo scorso 20 marzo, un furgoncino dell’Esercito ha prelevato le prime 80 piante destinate allo Stabilimento farmaceutico militare di Firenze dove sta partendo la prima produzione italiana di cannabis a scopo terapeutico. Ma quello che si produce in Toscana è stato studiato, selezionato e coltivato a Rovigo. “Qui abbiamo gli ingegneri che da anni progettano un’automobile, a Firenze è sorta la prima fabbrica”, spiega un funzionario del ministero dell’Agricoltura.
Quelle piante clonate
Nelle quattro stanze adibite alla coltivazione le finestre sono sbarrate, ma la luce è intensa e l’odore inconfondibile. La filiera comincia con un cubetto di lana di roccia poco più grande di un dado: qui vengono impiantate le talee, piccoli rami di cannabis che metteranno radici fino a diventare autosufficienti. Per assicurare la stabilità genetica necessaria alla produzione farmaceutica, le piante non seguono il ciclo di riproduzione naturale, ma vengono clonate. I “segreti” per una produzione perfettamente standardizzata, requisito fondamentale per un prodotto farmaceutico, sono un ambiente sterile, 18 ore di luce al giorno, temperatura e umidità costanti. Solo così si riescono ad assicurare fino a quattro cicli di produzione all’anno, equivalenti a un raccolto di 150 grammi per pianta. L’obiettivo è massimizzare la resa con il minimo sforzo, benché quasi tutti gli strumenti utilizzati si possano reperire in un negozio Leroy Merlin e altri siano addirittura artigianali, come le mezze bottiglie di plastica che coprono le piante per mantenere alta l’umidità. La sensazione di essere in un laboratorio professionale sorge solo guardando i dodici armadi in plastica riflettente: servono a capire quale sia la luce migliore per la crescita. Ognuno contiene una pianta e una lampada diversa: blu, rossa, al neon e una al led capace di produrre tanta luce quanto il sole, ma senza calore. Un campione di ogni produzione viene portato al piano inferiore, dove viene testato il contenuto di cannabinoidi. Il risultato è una linea ondulata simile a un encefalogramma: l’ampiezza di picchi e curve decreterà qual è la cannabis “giusta” per alleviare il dolore, quale quella per ridurre gli spasmi muscolari.
Dimenticatevi i nomi pittoreschi e un po’ hippie sui menu dei coffee shop di Amsterdam: qui non si produce nessuna vedova bianca, bubblegum o grandine viola. La varietà destinata a Firenze, quella che combina nel giusto gradiente i due principi attivi curativi (il Thc responsabile dello sballo e il Cbd), si chiamerà CinRo: Colture industriali di Rovigo. Seguiranno per altre patologie il CinBo e il CinFe, in omaggio a Bologna e Ferrara.
A selezionare ogni varietà, dopo una sperimentazione che dura più anni, è il primo ricercatore Giampaolo Grassi. Anche lui, come i nomi della “sua” cannabis, non tradisce alcuna fascinazione fricchettona: giacca blu, camicia e un marcato accento ferrarese. Eppure è stato lui, da quando nel 2002 ha cominciato a condurre la sede di Rovigo, a introdurre la prima coltivazione per fini di ricerca della cannabis in Italia. In realtà si tratta di una coltura di ritorno: “Da piccolo passavo le giornate a giocare tra le piante di canapa da fibra”.
Canapa, eravamo secondi al mondo
Prima di Grassi a Rovigo si studiava solo la barbabietola da zucchero, la pianta che nell’Ottocento aveva portato le prime industrie in Romagna e nel basso Veneto, ma oramai in declino. Proprio la barbabietola aveva soppiantato la secolare produzione di canapa da fibra (della stessa famiglia dell’indica, quella psicotropa, ma senza Thc) di cui l’Italia era la seconda produttrice al mondo e che veniva impiegata per costruire le vele delle navi.
Tra le peculiarità del centro c’è una banca del seme con oltre 300 varietà e 2 mila incroci. “Ogni volta che un amico va a fare un viaggio all’estero me ne porta uno. È legale perché non contengono Thc”. I centri come questo nel mondo si possono contare sulle dita di una mano. Per questo, quando l’industria farmaceutica inglese GW inizia a sperimentare i primi farmaci a base di cannabis, il suo ricercatore va a confrontarsi con Grassi. E lo stesso hanno provato a fare il governo uruguagio e i produttori del Colorado dopo le legalizzazioni. Eppure, nessuna delle varietà isolate a Rovigo è stata “brevettata”. La ragione? Burocratica: “Per legge non possiamo trasportare il materiale fino alla sede olandese”, dove ne verrebbe riconosciuta l’unicità.