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 2015  marzo 30 Lunedì calendario

I nostri politici, maleducati e ignoranti. Alla Camera e al Senato i parlamentari ne fanno di tutti i colori: non solo sms, partite sull’iphone e chat ma anche manicure in aula. Per non parlare dei pessimi rapporti con l’italiano

Al principio dell’irresistibile scalata, Matteo Renzi non nutriva dubbi. «Noi, parlo della mia generazione, siamo a un bivio. Dobbiamo scegliere se fare i polli di batteria o avere il coraggio di usare un linguaggio diverso».
Optò per il linguaggio diverso. Grammatica politica, più che improbabile rovesciamento della Crusca. Ma le cose si tengono, come apparve evidente a chiunque avesse potuto imbattersi, i primi giorni di mandato, negli sprovveduti calati d’ogni dove in qualità di «rappresentanti del popolo sovrano». S’avverava l’inatteso ma agognato avvento del dilettantismo; la vittoria piena del senatore grillino che si vantò di non voler sapere nulla del Palazzo che s’apprestava ad accoglierlo. Nemmeno dove fosse. Scene da un mondo ormai sbilanciato sul futuro, come la foto delle ministre Boschi e Madia chine e concentrate entrambe sugli smartphone, studentesse diligenti ma avulse dal contesto, completamente tese, piuttosto, alla comunicazione in tempo reale. Qualche video circolato soprattutto sul Web irradia similari immagini del premier. Novembre scorso: conferenza stampa congiunta di Renzi con il presidente egiziano al Sisi. Ogni qual volta parla il leader arabo, il premier si applica sfrontatamente al telefonino, chatta qualcosa di assai più importante. Identica scena il 3 febbraio scorso, quando Renzi incontra Alexis Tsipras: il Greco parla greco, e Matteo guarda altrove, sorride, saluta, risponde all’iphone. Così nell’incontro ufficiale a Bruxelles con il presidente dell’Assemblea, Martin Schulz (22 febbraio), diventato cult-movie alla tv francese, cui non è parso vero riservarci le tipiche, affettuose attenzioni transalpine sugli italiani inaffidabili, in perenne ritardo, distratti, poco rispettosi.
Legislatura numero XVII, ovvero l’imprevedibile virtù dell’ignoranza, come nel sottotitolo del film da Oscar Birdman. Detto in altro modo: politici con le ali d’uccello volano leggeri sul mondo, rappresentando il nostro smarrimento, la nostra liquidità (tutt’altro che bancaria). Se Palmiro Togliatti sposò l’idea degli inglesi Lorrimer e Stuart Mill del Parlamento «specchio del Paese», persino il reazionario barone Sidney Sonnino immaginava la Camera come «ritratto fotografico di una Nazione», anzi come mappa (...)
(...) in scala. Così che appare fondato il sillogismo avanzato in un libro appena uscito di Pino Pisicchio, giovane dc ormai incanutito (I dilettanti, ed. Guerini). Nella prima Legislatura della Repubblica (1948-1953) il 91 per cento dei parlamentari era laureato, gli illetterati a vario titolo il 90 per cento della popolazione, nota Pisicchio. «Un peso quasi equivalente, dunque, a quello dei rappresentanti in Parlamento. In uno specchio, però, rovesciato». Oggi i deputati addottorati superano di poco il 68 per cento, mentre gli illetterati (uno o neppure un libro letto in un anno) ammontano a circa il 37,6 per cento. Che significa? Più che alla trasformazione da Parlamento delle élite a Parlamento dei cittadini, questa la tesi, «abbiamo assistito a un lento, ineluttabile, progressivo scivolamento verso una diversa concezione della funzione del parlamentare e, più in generale, della politica: da pedagogia democratica a strumento sostitutivo di un’attività lavorativa. Dunque non politica come vocazione e neppure come professione. Mestiere, solo mestiere».
Ognuno ne ha l’esempio sotto gli occhi. Basta aprirli. La deputata che riceve una candidata al ruolo di assistente con il seno in mano, mentre allatta, non dà luogo infatti a scena di tenerezza, bensì alla rappresentazione plastica della stessa noncuranza, dello stesso sprezzo delle regole mostrato dalla presidente Boldrini nei suoi perenni ritardi d’inizio seduta, che tanto irritano Renato Brunetta. Echi d’incapacità relazionale e gestionale mai fatti in malafede, però riscontrabili nella recente, spazientita censura che Brunetta le ha rivolto: «Ma perché, signora Presidente, queste cose capitano sempre e solo quando presiede lei?!». Epiche le baruffe con i grillini, che per mesi sono andati avanti a schernirsi con una delle frasi più incongrue tra le tante pronunciate dalla Boldrini: «E lei, onorevole, non brandisca la Costituzione!». Così non è un mistero quanto spreco di energie, litigi, incomprensioni, siano costate alla commissione Affari costituzionali del Senato gli atteggiamenti messi in campo dalla trentenne Boschi, alle prime armi, davanti alla riforma degli architrave del sistema politico. Fino a provocare una lettera del senatore Mucchetti, dal tono vibrante d’innamorato: «Ma perché fai così? Potresti accelerare... e invece sguaini lo spadone... Non ti capisco! E poi perché non entri mai nel merito e ti limiti a ricordare riunioni e costituzionalisti... per chiudere la bocca a chi non la pensa come te? So bene di non contar nulla... Eppure due chiacchiere, finito il lavoro, farebbero bene. Sarebbero le prime».
È dietro le quinte dei lavori che la nouvelle vague s’afferma in tutta la sua portata rivoluzionaria. La senatrice di centrodestra che si fa accompagnare dalla portavoce all’appuntamento col dentista: «Ho paura, mi tenga la mano mentre mi fa l’otturazione». Il portaborse costretto a seguire il proprio senatore durante le sue rilassanti passeggiate a cavallo (a piedi, al trotto). Deputate grilline che passano il tempo a smaltarsi le unghie nella foggia ora in voga, con polvere di stelle, e quell’altra che passa la giornata alla spa. Quisquis de populo giunti a Palazzo, la cui trasandatezza viene anzitutto esibita nel modo di vestire, «jeans e giacche improbabili, maglioncini che neppure il mio filippino acquisterebbe» (lo racconta un attempato – e facoltoso – onorevole Ncd). All’unisono cambia il modo di parlare, e le cose che si dicono sono quanto di più vicino ai discorsi da bar, allorché le dosi di corroborante superano dosi consigliate. Non basti il solito grillino che crede ai micro-chip sottopelle o quello che nega lo sbarco sulla luna. Filippo Gallinella e altri 14 hanno firmato un pdl per combattere il terribile grano saraceno, scambiato per straniero; Carlo Sibilia ha proposto di sposarsi non solo tra gay, ma «in più di due persone e anche tra specie diverse purché consenzienti»; Carla Ruocco ha argomentato che «le borse calano, lo spread cresce per colpa della legge elettorale»; Roberta Lombardi che «noi non incontriamo le parti sociali perché siamo le parti sociali». Castronerie logiche, prim’ancora che sintattiche, come nei tanti casi di mortificazione patiti dalla lingua italiana. E qui non concorrono solo i grillini, ma l’intero emiciclo: «Meglio che sta fermo, così evita cose più peggiori», confida la senatrice; «Esprimo rammarico per come il provvedimento ci è stato inviato», argomenta un membro della commissione Cultura; «Come dirò poc’anzi», esordisce un senatore in aula. «Mi hanno già telefonato a voce tutti», lamenta un altro prima dell’importante votazione. Peggio se ci s’imbatte nel profluvio di sms: «È colpa dei neo nuovi eletti»; «Mi raccomando, teniamoci sentite!». Per finire con: «Ai postumi l’ardua sentenza» sentito di persona e l’ormai celebre «sarò breve e circonciso» di Davide Tripiedi, che nel nome porta il segno del destino. Sostantivi e aggettivi pret-â-porter fanno la parte del leone: carino, bellino, tesorino, sfigato, vengono utilizzati per definire l’ultimo emendamento più che il collega di banco. Dilettantismo di truppa cui non si sottrae, come s’è visto, il quartier generale. Tanto da far pensare che la frase d’ingresso in Parlamento di Marianna Madia, «faccio dono della mia inesperienza», sia il manifesto di un’epoca. Nella quale l’esultanza spropositata dei renziani per ogni provvedimento (a prescindere dal contenuto) portato a casa fa da contraltare all’incomprensibile pianto a dirotto della minoranza; come se gli uni avessero vinto e gli altri perduto la finalissima del torneo di calcetto. Senza che per questo nessuno si prenda la briga di controllare se sullo striscione esibito in aula il «qual’è» (capitato nell’ultimo Aventino) abbia davvero bisogno dell’apostrofo. D’altronde, sosteneva Robert L. Stevenson, «la politica è l’unico mestiere per cui non si ritiene necessaria alcuna preparazione». E come spiegò il direttore dell’Avanti! Ugo Intini al cronista imberbe «il bello della democrazia risiede nella possibilità che anche l’asino con stentata licenza elementare diventi ministro». Non poteva sapere che l’asinismo, ingigantito e rafforzato nel moltiplicatore del Web, ci avrebbe portato ben oltre il traguardo.