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 2015  marzo 27 Venerdì calendario

La minoranza bersaninana prossima alla sua fine e Renzi pronto a tutto per dividerla definitivamente per portare dalla sua parte chi può servirgli. Così il premier vuole vincere la battaglia su Italicum e Senato

La sinistra del Pd, l’area di minoranza cosiddetta “bersaniana” che si oppone a Renzi, potrebbe essere vicina alla sua Waterloo, cioè a una sconfitta definitiva. Non si tratta solo di un gioco interno al “palazzo”, come tale di scarso interesse. Al contrario, siamo forse alla vigilia di un passaggio in grado di cambiare la scena politica.
Il venire meno dell’opposizione interna permetterebbe al premier di lanciare in grande stile il suo “partito della Nazione” (detto anche con un po’ di malizia, peraltro giustificata, il “partito di Renzi”). E non a caso il possibile, anzi probabile, sfaldamento del fronte è atteso sulle due riforme di natura istituzionale: la legge elettorale e la trasformazione del Senato. Due misure che al grande pubblico interessano certo meno dei primi dati positivi sulle assunzioni a tempo indeterminato (grazie anche al Jobs Act) o sull’arruolamento dei precari nel pubblico impiego. Eppure sono le riforme fondamentali per decidere i futuri equilibri del sistema.
Renzi lo sa talmente bene che vuole far votare la legge elettorale dalla Camera prima del voto di fine maggio (elezioni in sette regioni) per chiudere la pratica. Anche i suoi avversari lo sanno, ma si sono cullati nella speranza che un compromesso fosse possibile sui punti controversi, a cominciare dal numero esorbitante dei parlamentari “nominati” nelle liste bloccate. L’idea è ancora quella di far passare a Montecitorio uno o due emendamenti, per cui il testo dovrebbe sottoporsi poi a una nuova lettura al Senato. Là dove, è noto, i numeri della maggioranza sono esigui e in teoria tutto potrebbe accadere.
Come si capisce, questa posizione non racchiude una strategia e a quanto pare nemmeno una tattica. Esprime solo una notevole debolezza. La minoranza è arrivata alla resa dei conti con le polveri bagnate e Renzi oggi ha buon gioco a sfidarla. Per cui nella direzione del Pd di lunedì, se il premier- segretario vorrà contare amici e nemici, il gruppo degli oppositori sarà schiacciato e dovrà adeguarsi; a meno di non volersi auto-emarginare del tutto o addirittura uscire dal partito.
Come si è giunti a questo amaro epilogo? L’ultimo errore è stato quel mezzo litigio sulle colpe storiche di D’Alema nell’assemblea di corrente, sabato scorso a Roma. Se questi oppositori non riescono a essere uniti nemmeno fra di loro – deve aver ragionato Renzi – che motivo c’è di temerli? In effetti, quell’assemblea non ha dato l’impressione di un gruppo coeso e determinato. Ha ragione Bersani quando rivendica alla minoranza il merito di aver contribuito in modo forse anche decisivo all’elezione di Mattarella al Quirinale. Ma quel risultato fu ottenuto perché allora l’opposizione interna seppe far pesare i suoi voti, obbligando Renzi a scegliere e in un certo senso a negoziare.
Oggi non sta accadendo nulla di simile. Non si sa quanti sono i deputati del Pd disposti a votare contro la legge elettorale (se non sarà modificata), a costo di pagare le conseguenze del gesto di ribellione. Non si sa quanti sono i senatori pronti a sconfessare il loro partito sulla riforma del Senato: se fossero un gruppetto rilevante, il presidente del Consiglio – cui non fa difetto il realismo – dovrebbe prenderne atto a agire, vale a dire cercare un compromesso.
Per l’una o l’altra ipotesi occorreva che la sinistra del Pd fosse in grado di presentare numeri consistenti, tali da impensierire Renzi. L’assemblea di Roma era il palcoscenico ideale per annunciare quei numeri, sia alla Camera sia al Senato, rendendo credibile la minaccia di guerra. Ma non è accaduto e quell’incontro è stato tutto tranne che una dimostrazione di forza. E infatti Renzi si è rasserenato ed è passato alla controffensiva. Se i bersaniani sono incerti sul da farsi, ci penserà lui, il premier, a dividerli ancor di più e a portare dalla sua parte chi può servirgli. Così si sta risolvendo, salvo colpi di scena, la battaglia della riforma elettorale e poi del Senato. Con la disfatta di un vecchio gruppo dirigente che non sa rinnovarsi ed è ormai soggiogato da Renzi.