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 2015  marzo 24 Martedì calendario

La convocazione dell’oriundo” sarà anche un problema calcistico serio, ma non vi sembra un titolo degno di un apocrifo di Paolo Conte? Per poter cogliere appieno la suggestione della parola “oriundo” è necessario avere incominciato a incollare figurine all’album all’epoca in cui andava fatto ancora con la coccoina

La convocazione dell’oriundo” sarà anche un problema calcistico serio, ma non vi sembra un titolo degno di un apocrifo di Paolo Conte? “Oriundo” è una parola che solo il maestro di Asti saprebbe infilare in una delle sue rime come quella fra “bovindo” e “tamarindo”.
Per poter cogliere appieno la suggestione della parola “oriundo”, e ricavarne il massimo dell’impatto sonoro e immaginativo, probabilmente è necessario avere incominciato a incollare figurine all’album all’epoca in cui andava fatto ancora con la coccoina, ovvero nella gloriosa fase di transizione della “cellina biadesiva”: la fine degli anni Sessanta. Una parola da maschi, ché le femmine allora né giocavano a calcio né attaccavano figurine, ed erano legittimate a pensare che una parola come “oriundo” fosse un termine di turpiloquio, proprio in quanto di uso fondamentalmente maschile. Ai tempi “dell’oriundo”, in panchina si trovava anche l’allenatore chiamato Oronzo (Pugliese) e, sciocchi come si era e in parte si è rimasti, potevamo declamare parole e nomi simili per ore, senza poter mai giustificare l’ilarità che ci ispiravano.
Ma “oriundo” non era affatto un nonsense. I calciatori “oriundi” appartenevano a una categoria che andava all’esaurimento: non ne venivano tesserati di nuovi, le frontiere si erano serrate da un pezzo; ma alcuni delle ultime ondate erano ancora in attività (Sivori! Sormani! Pesaola! l’intramontabile Altafini!) e il loro status veniva segnalato dalle sobrie didascalie dell’editore Panini: “oriundo”. Nessuno spiegava ai piccoli collezionisti di allora che l’aggettivo derivava dal gerundivo del latino oriri, nascere, avere origine. Significava qualcosa come “indigeno”, insomma, ma senza connotazioni sgradevoli (“indigeni” era allora un sinonimo di “primitivi”, con il tremendo girotondo di specificazioni: baluba, zulu, bagonghi...). Gli oriundi italiani erano in definitiva calciatori nati qui o là, Argentina o Belgio, figli o nipoti di immigrati. Dirigenti sportivi scartabellavano archivi parrocchiali. Anche solo una nonna italiana, se reperita e in qualche modo documentata, poteva consentire a un calciatore sostanzialmente straniero di venire schierato come italiano, anche in Nazionale. Andrebbe quindi detto sempre “oriundo italiano”, intendendo “originario (anche lontanamente) dell’Italia”; ma nell’uso rimaneva quella strana parola scempia: “oriundo”, come dire “originario” ma senza origine. Un po’ come quando il lattaio chiede quale latte si desidera e gli si risponde “il parzialmente”. Aggiungere “scremato” parrebbe da puristi pedanteschi.
Su questa parola, così espressiva nel suono eppure tanto manchevole nel significato reale, proprio i puristi hanno dibattuto. Ma forse neppure Gianni Brera, che pure di certe cose si deliziava è risalito sino alla Bucchereide di un Lorenzo Bellini, poemetto di inizio Settecento ove si legge: «E dier le mosse i suoni agli sgambetti / di quel ballo oriundo levantino / che il gran Mogorballollo a Guzzurratte / quand’ei vi fe’ il festino di Goliatte». E chissà cosa intendeva dire, quel Bellini. Ma l’aver lui usato l’aggettivo “oriundo” ha tranquillizzato i puristi posteriori sulla liceità della parola, che a metà del Novecento ha incominciato a designare autori di altri sgambetti, a volte altrettanto “levantini”, se si pensa all’irritante scaltrezza di un Sivori o di qualsiasi altro «uomo ch’è venuto da lontano» e «ha la genialità di uno Schiaffino» (per dirla appunto con Paolo Conte, Sudamerica). Ora gli oriundi sono tornati, Mancini non li vuole, Conte (Antonio) li vuole. La parola ha resistito. L’importante è quello.