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 2015  marzo 05 Giovedì calendario

Gli sprechi di Pompei: quei 103 mila euro per censire 55 randagi e il Teatro deturpato con il cemento. Tra vini, libri e opere dubbie, due anni di gestione «stravagante ed esorbitante»

L’«Attila di Pompei», l’ex commissario della Protezione Civile Marcello Fiori che ristrutturò con ruspe, martelli pneumatici e cemento quello che era il Teatro Grande stravolgendolo per sempre, è finito nel mirino della Corte dei Conti. Che gli ha bloccato tutti i beni per recuperare un danno erariale di 5.778.939 euro. Quanto un funzionario di alto livello guadagna al netto in 130 anni di lavoro.
Per carità: l’uomo resta innocente come un cherubino fino alla Cassazione. Ma tutto si può dire tranne che la notizia dell’offensiva dei magistrati contabili abbia stupito quanti seguono le vicende dell’antica città distrutta dall’eruzione del 79 d.C. Sono anni che le imprese pompeiane nel «biennio d’oro» dell’ex dipendente dell’Acea miracolosamente cooptato ai vertici della Protezione civile ai tempi di Bertolaso e scelto come plenipotenziario dall’allora ministro Sandro Bondi sono al centro di polemiche.
Aveva 79 milioni a disposizione, Fiori. E li ha spesi in modi talmente «stravaganti ed esorbitanti rispetto ai compiti assegnati», per citare la Procura regionale campana della Corte dei Conti, da tirarsi addosso non solo l’attuale decreto (che lui ha comunque preso in contropiede smaltendo varie proprietà in famiglia) ma anche un’inchiesta penale conclusa col rinvio a giudizio del nostro barbaro e altre cinque persone per i reati di abuso di ufficio, frode in pubbliche forniture e truffa ai danni dello Stato.
«Sono innocente e lo dimostrerò in tutti i processi», dice. Auguri. Certo è che la lista delle «stravaganze», rilevata allora da un’inchiesta sull’ Espresso di Emiliano Fittipaldi e Claudio Pappaianni, resta indimenticabile. Tra il novembre 2009 e il luglio 2010 il commissario riuscì a spendere ad esempio 102.963 euro (sufficienti per pagare lo stipendio di un anno a cinque archeologi) per il solo progetto «(C)Ave Canem». Vale a dire il censimento (non la rimozione: il censimento) di 55 cani randagi (quasi duemila euro a cane censito) ai quali fu dedicato perfino un sito in cui le povere bestie parlanti si davano alla poesia come Odone: «La mia mamma, Setterina Patrizia macchiata di nero e bianco, ci allattava in mezzo ai prati di Pompei, dove fiori e campanule deliziavano il nostro olfatto di cuccioli…».
Per non dire di 12.000 euro per la rimozione di 19 pali della luce. E di 1.776 per le «divise degli autisti a disposizione del Commissario». E di altri 81.275 (9.600 dei quali a un ristorante locale, «Il Principe», che si vanta d’essere «un ambasciatore dei sapori dell’antica Roma») spesi per «organizzazione e accoglienza visita presidente Consiglio», visita poi saltata. Spesucce rispetto ai 3.164.282 euro dati alla Wind per il progetto «Pompei viva» che aveva come apertura, sul sito, lo spot di un ragazzino dinoccolato che entra nella Villa dei Misteri, scatta una fotografia col cellulare a una dama dell’affresco e quella attacca a cantare una cover di «I Will Survive» di Gloria Gaynor. Stupefacente.
Così come strabiliante fu la scelta di comprare dalla casa vinicola Mastroberardino mille bottiglie di vino «Villa dei Misteri» al prezzo di 55 euro a bottiglia (il costo di un Sassicaia) per un totale di 55 mila euro. Bottiglie in parte distribuite per ambasciate e consolati ma in larga maggioranza accatastate in una stanza dove sarebbero state trovate dal soprintendente successivo. E che dire dei 10.929 euro buttati per l’«ideazione, sviluppo e rilegatura di n. 50 copie del documento Piano degli interventi e relazione sulle iniziative adottate dal commissario delegato», cioè un libro stampato per incensare l’opera magna del commissario e costato addirittura 218 euro a copia cioè il doppio di un raffinatissimo libro d’arte?
Fin qui, ci sarebbe perfino da sorridere, se le cifre non fossero scandalose in un periodo di crisi come questo. La ferita più grave a Pompei, però, ferita inguaribile, è l’indecente ristrutturazione del Teatro, che fino alla incursione di Fiori era rimasto sostanzialmente intatto. Teatro sul quale, come denunciò straziata la nostra Alessandra Arachi raccontando di «un terribile cantiere» invaso da betoniere, bob kart e ruspe («gli operai si muovono in mezzo alle rovine come elefanti dentro una cristalleria e a cercare un responsabile di tutta la baracca si trova solo “il geometra Pasquale”») non fu fatto un restauro conservativo ma un rifacimento edilizio con cordoli di cemento a vista e mattoni di tufo del tipo usato sugli Appennini per gli ovili e i pollai. Un insulto. Come un insulto sono gli spropositati container posati «provvisoriamente» dalle gru dietro la scena come camerini per l’orchestra del maestro Riccardo Muti che inaugurò il teatro rifatto. E lì rimasti. Il tutto costato, grazie ad accordi diretti senza gara d’appalto come quello con la ditta di Anna Maria Caccavo (beneficiata in un paio d’anni di addirittura 26 interventi) circa 8 milioni: sedici volte di più della spesa inizialmente prevista.
Ma lasciamo la parola ai magistrati contabili. «Il dato inequivocabilmente emerso dalle indagini, anche penali, è che nell’esercizio del suo mandato e chiaramente esorbitando dai limiti della competenza commissariale, il signor Marcello Fiori si è occupato in maniera “singolare” della messa in sicurezza e della salvaguardia di uno dei siti archeologici di maggior richiamo turistico e scientifico a livello internazionale». Sono infatti emersi, dice l’accusa, «una gestione fraudolenta e un sistema di potere clientelare consolidati e diffusi. Gli episodi di reato sono infatti “accomunati” da un modus operandi assolutamente irriverente per la sua protervia e significativo di un assoluto senso del disprezzo per le regole».
E tutto questo, «come di consueto», senza che «il medesimo abbia dovuto giustificare questa certa débâcle manageriale in alcuna sede disciplinare». Tanto che «risulta rivestire tuttora un ruolo apicale entro il rango di funzionario della presidenza del Consiglio dei ministri».