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 2015  marzo 04 Mercoledì calendario

Doping, quel centinaio di atleti italiani che hanno evitato i controlli a sorpresa senza essere né puniti né indagati. La svolta epocale di Malagò delega i controlli ai Nas, peccato che rispondano agli ordini del generale Cosimo Piccinno che lavora negli stessi uffici del Coni

 A medaglie olimpiche con l’atletica leggera italiana non siamo mai andati benissimo: una a Londra 2012, due a Pechino 2008. Ad Atlanta 1996 quattro. Il massimo fu a Los Angeles nel 1984, complice il boicottaggio sovietico, dove ne portammo a casa sette. Va un po’ meglio a Mondiali ed Europei, ma l’Italia resta comunque un paese di terza, per non dire quarta fascia. In fondo, ancora tutti oggi ricordiamo Berruti, Mennea, Cova, Simeoni, Bordin, Baldini, Dorio, Damilano. Oppure Alex Schwazer, il cui nome però ci allontana dalle gare e ci porta al nocciolo della questione: nel doping siamo certamente un paese all’avanguardia. Intervistato dal Fatto Quotidiano, il professor Sandro Donati, l’ex allenatore di atletica leggera che nel 1997 denunciò il sistema Conconi (finanziato dal Coni) e portò alle dimissioni dell’allora presidente del Coni Mario Pescante, ha parlato senza remore di “doping di Stato”. Il caso Schwazer, infatti, è andato ben al di là della storia dell’atleta di primo piano squalificato, ben oltre i rotocalchi della storia d’amore con Carolina Kostner: squalificata anche lei in primo grado per aver coperto il fidanzato, pur con tutte le attenuanti concesse dal Tna (Tribunale Nazionale Antidoping).
   Nelle 550 pagine dell’informativa che le procure di Padova e Bolzano hanno trasmesso alla Procura Antidoping del Coni – frutto di un’inchiesta cominciata dal caso Schwazer poi allargatasi alla gestione dei controlli antidoping dell’atletica italiana, si disegna di fatto un sistema paracriminale che – a partire dal doping, si interseca con finanza, paradisi fiscali, evasione e riciclaggio. Almeno 38 atleti della Fidal (Federazione Italiana Atletica Leggera), cui poi se ne sono aggiunti altri 55, avrebbero negli ultimi anni evitato i controlli “a sorpresa” disposti dal Coni, gli unici efficaci, rendendosi irreperibili senza per questo essere né puniti né tantomeno indagati. Il tutto, quindi, sarebbe successo con la probabile complicità di dipendenti della Fidal e del Coni. Per ora sono sotto inchiesta interna solo due medici e una segretaria, ma non dimentichiamo che l’Italia è l’unico Paese al mondo in cui il principale laboratorio antidoping, quello del Coni, è stato chiuso d’ufficio: erano gli Anni Novanta, quelli delle denunce di Zdenek Zeman sul “calcio che deve uscire dalle farmacie” da cui si scoprì che all’Acqua Acetosa le provette venivano dimenticate sugli scaffali e finivano nel nulla. A quanto pare da allora è cambiato poco. In piena rincorsa sulla giustizia ordinaria, la Procura del Coni ha cominciato le audizioni degli “irreperibili”, mentre parallelamente il Tna provvedeva con le prime assoluzioni: Simone Collio, Maurizio Checcucci e Roberto Donati, i tre staffettisti della 4x100 d’argento agli Europei di Barcellona 2010, accusati per l’uso di un cortisone vietato.
   E MENTRE le inchieste procedono, la voce del presidente della Fidal, Alfio Giomi, si sente solo per chiedere al Coni maggiori sovvenzioni (sono una decina di milioni l’anno) e per accusare lo strapotere del calcio che fa sempre molto chic.
   Dopo il dinamico inattivismo del suo predecessore Gianni Petrucci, il presidente del Coni Giovanni Malagò si sente in dovere di prendere provvedimenti. E così, poche settimane fa, sulla scia dello scalpore delle inchieste di Padova e Bolzano, c’è stata una “svolta epocale” (Malagò dixit), ossia la delega ai Nas (Nuclei Antisofisticazioni e Sanità dei Carabinieri) dei controlli a sorpresa precedentemente gestiti dal Coni stesso. Finalmente un controllore terzo? Non esattamente, il Comando dei Nas agli ordini del generale Cosimo Piccinno lavora negli stessi uffici del Coni, e utilizza buona parte dello stesso personale: quello che avvisava gli atleti dei controlli o chiudeva un occhio se si rendevano irreperibili. Ma c’è un problema ancora maggiore, appaltare i controlli a sorpresa ai Nas, in stretta collaborazione con il Coni, è il modo migliore per non creare l’authority veramente indipendente che la legge 376 del 2000 prevede. Una mossa del cavallo che permette al Coni di mantenere la gestione dei controlli a sorpresa. L’ha detto bene il senatore Pd Paolo Cova, autore di un’interrogazione parlamentare, spiegando che si tratta del tipico gioco di sponda tra controllore e controllato. Siamo il Paese in cui negli Anni 80 era lo stesso Coni a finanziare con soldi pubblici le ricerche del dottor Francesco Conconi e del collega Michele Ferrari, il paese in cui negli Anni 90 tutti escono prescritti dall’inchiesta della Procura di Ferrara, dove il pm Pierguido Soprani in una durissima requisitoria accusò il Coni (e i suoi presidenti Pescante, Carraro e Gattai) e parlò di “doping elevato a sistema”. Il paese in cui, se ben 38 atleti della Fidal non hanno rispettato i controlli a sorpresa, è evidente che qualcosa non va per il verso giusto.