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 2015  marzo 04 Mercoledì calendario

Il Csm dice no a Di Matteo alla Procura nazionale antimafia. La sovraesposizione mediatica, Vito Galatolo, l’ex boss del quartiere palermitano dell’Acquasanta e la questione delicata riguardante il dottore

La voce del pentito echeggia dietro il paravento, solo i giudici possono guardarlo in faccia quando ribadisce i progetti di attentato che l’hanno convinto – così sostiene – a rinnegare la mafia e collaborare con la giustizia. «Uscito dal carcere a settembre del 2012 – racconta – mi incontrai con altri esponenti di Cosa nostra che discutevano di una questione molto delicata riguardante il dottor Di Matteo».
È un’espressione che l’ex boss del quartiere palermitano dell’Acquasanta, Vito Galatolo, ripete più volte durante la sua deposizione nell’aula-bunker di Rebibbia, trasferta di un processo siciliano in cui si dibatte di associazione mafiosa ed estorsioni. Perché per spiegare la genesi del suo pentimento deve tornare alla «questione delicata», cioè il piano per uccidere il pubblico ministero Nino Di Matteo. Messo in cantiere con il beneplacito del super-latitante Matteo Messina Denaro, richiesto dallo stesso Galatolo. Il quale, arrivato il «via libera» dell’ultimo Padrino stragista ancora latitante, iniziò ad occuparsene. Un anno prima che Totò Riina cominciasse a inveire contro lo stesso pm, nelle ormai famose intercettazioni nel cortile del carcere milanese di Opera.
«Mi dissero che questo magistrato si doveva fermare perché stava andando troppo avanti, stava entrando in cose in cui non doveva», scandisce il pentito. E comincia a svelare un progetto di attentato da realizzare al palazzo di giustizia, nella stradina dove passano i detenuti per andare ai processi, abbandonato per sopravvenute difficoltà logistiche. Lui andrebbe ancora avanti, ma il pubblico ministero lo blocca: «Ci sono indagini in corso, non si dilunghi nei particolari». E così il racconto rimane a metà, ma restano gli allarmi ripetuti sul conto di Di Matteo, alimentati anche dalle rivelazioni di Galatolo, che conclude: «Quando mi arrestarono di nuovo, nell’estate del 2014, nel carcere di Tolmezzo arrivò un compagno di detenzione che mi riferì che Vincenzo Graziano (altro mafioso accusato dal neo-pentito, ndr ) era tornato libero. Allora mi preoccupai, perché Graziano aveva il tritolo per l’attentato a Di Matteo, e la capacità di utilizzarlo; cominciai a sentirmi la coscienza sporca, poi mi misero al “41 bis”, pensai al futuro dei miei figli e decisi di collaborare».
Le ricerche dell’esplosivo hanno dato finora esito negativo, ma l’attendibilità di Galatolo (unita ad altri allarmi) ha fatto scattare un sistema di protezione al massimo livello per il pm più rappresentativo del processo sulla presunta trattativa fra lo Stato e la mafia, nonché l’indagine ancora aperta sugli stessi fatti, foriera di continui accertamenti che vanno a scavare sempre più a ritroso.
Oggi Di Matteo è il magistrato più scortato e protetto d’Italia, con i cani-poliziotto specializzati nel fiutare l’esplosivo sguinzagliati preventivamente in ogni luogo pubblico dove deve entrare. Nel frattempo ha presentato diverse domande per cambiare ufficio, e la scorsa settimana la commissione del Consiglio superiore della magistratura ha bocciato – insieme a molte altre – la sua domanda per diventare sostituto procuratore della Direzione nazionale antimafia. C’erano tre posti da coprire, e Di Matteo era uno dei candidati. Ma la commissione dell’organo di autogoverno ha preferito altri magistrati, considerati più meritevoli: Eugenia Pontassuglia della Procura di Bari, Marco Del Gaudio di Napoli e Salvatore Dolce di Catanzaro. Di Matteo, che vantava diciotto anni di inquirente antimafia a Caltanissetta e a Palermo, è rimasto fuori, come Paolo Guido (anche lui pm palermitano di lungo corso, che abbandonò il pool sulla trattativa perché in dissenso sulle conclusioni raggiunte) e altri.
È però su Di Matteo che, vista la particolare situazione di sovraesposizione dovuta anche ai ripetuti allarmi sulla sua sicurezza, si stanno concentrando le discussioni all’interno del Csm. Perché sebbene tutti sostengano che la scelta non è frutto di valutazioni negative sulla professionalità del magistrato e sulle sue indagini, è pressoché scontata la lettura da parte di qualcuno di una «bocciatura» del pm divenuto simbolo del travagliato processo sulla trattativa. Che tante polemiche ha già provocato e – prevedibilmente – continuerà a provocare.
La decisione finale spetta al plenum, e potrebbe arrivare già oggi. Ma ieri a palazzo dei Marescialli si è discusso se procedere oppure rinviare, tentando di trovare altre soluzioni. Anche sentendo il diretto interessato per sondarne le reali intenzioni ed eventuali diverse possibilità. Che tuttavia non appaiono semplici. A breve il Csm sarà chiamato a nominare un altro sostituto procuratore alla Dna, ma circolano già altri nomi, e c’è chi sostiene che per quel posto è necessaria una domanda che Di Matteo non avrebbe presentato. Cosa che invece ha fatto per la Procura di Enna, incarico per il quale altri pretendenti sarebbero però in posizione apparentemente migliore; e da un ufficio direttivo potrebbe essere più complicato ottenere l’applicazione al processo sulla trattativa per portarlo a conclusione.