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 2015  marzo 03 Martedì calendario

Cos’è rimasto di Rimmel, quarant’anni dopo. In una notte del 1975, disobbedendo al produttore Lilli Greco, Francesco De Gregori registrò quasi clandestinamente il suo terzo album. Venderà 500 mila copie

Fermandosi ad annusare la vita in certe trattorie della vecchia Tiburtina, tra il vino dei Castelli “che si può bere solo a quell’età” e gli amici dell’epoca, Francesco De Gregori ripensava alle storie di ieri che sarebbero diventate quelle di domani. Nell’inverno del ’75, uscendo a notte fonda dalla Rca dopo aver registrato clandestinamente Rimmel, incontrava l’alba al tavolo con gli altri randagi della truppa e abbaiava alla luna, da capobranco della sua muta. Cani di strada. Occupanti abusivi dello Studio A, uno spazio che nella casa discografica che accolse, tra i tanti, Baglioni, Conte, Dalla, Fossati e Venditti, era riservato alla musica classica e alle colonne sonore cinematografiche.
Dal terzo disco di De Gregori, il produttore Lilli Greco, avrebbe preteso classicismo, ma si ritrovò in un film. Lilli cercava un disco soffertamente monacale, filologicamente legato alla seconda prova del principe (il disco con la pecora in copertina, un capolavoro assoluto, secondo un dubbioso De Gregori, curiosamente, il suo peggiore) e Francesco un trono per essere finalmente Re del suo creare. Greco sognava arrangiamenti severi, il dominio pieno e incontrollato del binomio voce e chitarra, la pretesa austerità del cantautore d’epoca. De Gregori la band con cui sperimentare. Il sax di Mario Schiano. “La risata forte e l’amicizia a cena” dei baffi di Franco Di Stefano e di Alberto Visentin, marito della Brigitte Bardot italiana, Cristina Gajoni: “L’ambiente in cui nacque Rimmel era disteso, c’era l’incoscienza della gioventù”. Il contrabbasso di Roberto Della Grotta: “Che è diventato buddhista” e dove sia finito, esattamente come Alice, De Gregori non lo sa. La pulizia formale di Renzo Zenobi. Le acrobazie, “i salti mortali” di Ubaldo Consoli, tecnico del suono, alla guida di un banco a valvole (proprio come le radio ascoltate dal De Gregori bambino) e di un registratore a 4 piste. I guizzi biondi di George Sims, uno che quarant’anni dopo Rimmel, deposta la chitarra elettrica sfoggiata poi negli stadi in Banana Republic, ancora giura: “Partecipare al disco fu un’emozione enorme, è stato e sarà sempre uno dei miei momenti più belli”. Viste le resistenze di Greco, De Gregori svestì il suo “canestro di parole nuove” dell’ufficialità, giocò d’astuzia e iniziò a registrare i falsi provini che avrebbero costituito l’architrave di Rimmel. Per esercitarsi, in quel circo dai confini allargati che era la Rca dell’epoca (un po’major de noantri, un po’ straordinario artigianato, un po’ Casa del Popolo di un gruppo di maestri residenti per caso e per passione al numero 7 di via Sant’Alessandro) non serviva chiedere permesso. Così De Gregori si infilò nello Studio A, radunò qualche complice e senza dirlo a nessuno incise un pezzo dopo l’altro, un Lp straordinario. Quando Greco si accorse della macchinazione si incazzò come una iena. Sbarrò letteralmente lo studio, impedì l’accesso a chiunque e fece convocare De Gregori dal gran capo della multinazionale, Ennio Melis. Francesco ammise senza resistenze: “Non volevo che le mie canzoni suonassero come suggeriva qualcun altro”. Melis gli diede via libera avvertendo De Gregori che il suo putsch sarebbe stato sottoposto al ‘giudizio’ del popolo: “Per me puoi proseguire, ma se il disco è brutto o non vende, ogni responsabilità sarà tua”. Rimmel superò le 500.000 copie. De Gregori, che nel disco aveva messo l’amore per Dylan, ma anche quello per “James Taylor, Joni Mitchell e Karol King”, a neanche 25 anni, divenne una divinità terrena. Acqua santa per le tasche di Melis e il piacere del pubblico pagante, indizio demoniaco nei sacrari intellettuali in cui ‘guadagno’ equivaleva a sterco.
Giaime Pintor si sistemò dietro la collina senza “aghi di pino” e punse dalle colonne della sua rivista. La purissima, durissima Muzak. Il titolo: “De Gregori non è Nobel, è Rimmel” spiegava ogni cosa. Il resto era persino peggio: “Chi osasse citare il decadentismo italiano, quello francese, l’ermetismo o Lorca o persino Dylan, commetterebbe un flagrante reato di lesa cultura”. Dessì difese il disco. Ci si accapigliò e tra una nuvola di fumo e una barricata, molto si discusse e non poco si processò, non solo metaforicamente, il peccatore che aveva osato evadere dalla cantina buia. Quarant’anni dopo, De Gregori spande ancora luce. Nella foto virata seppia, vestito da poeta, abbraccia i musicisti. Con i suoi amici – la Rca alle spalle – guarda verso un punto lontano. Ha un cappello da pescatore in testa, eredità dall’avventura gallurese di Volume 8 con De André. Erano notti lunghe, fughe in motorino, silenzi e canzoni scritte nel silenzio. Un giorno, d’estate, dalla porta entrò Cristiano, figlio di Fabrizio. L’anno prima aveva sentito una canzone, Alice. Gli era piaciuta, ma non aveva capito perché lei guardasse i gatti. Lo chiese a De Gregori. Quello non rispose. Per farlo scrisse Oceano. Nuota ancora oggi, De Gregori. Fondali chiari. Fondali scuri. Nuota al largo. Non si è stancato.