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 2015  marzo 03 Martedì calendario

Perché Israele e Stati Uniti non sono mai stati così distanti. Ai contrasti di politica estera si aggiungono la profonda disistima reciproca tra Obama e Netanyahu e il sospetto della Casa Bianca che, spaccando il Congresso per vincere le elezioni in Israele, stavolta sia il leader ebraico a cercare di trattare l’America come una banana republic

Giugno 1981. Reagan è furibondo con Israele per il bombardamento del reattore nucleare iracheno di Osirak, vicino a Bagdad. Gli Usa condannano l’azione e non difendono Gerusalemme davanti al Consiglio di sicurezza dell’Onu. La reazione del premier israeliano Begin è durissima. Convoca l’ambasciatore americano e lo ammonisce: «Non permettetevi di interferire nella nostra autonomia trattandoci come vassalli, non siamo una repubblica delle banane».
Chi oggi pensa che le relazioni tra i due Paesi non verranno scosse più di tanto dallo «sgarbo diplomatico» di Netanyahu, arrivato a Washington senza accordi preventivi con la Casa Bianca per esprimere (ieri all’Aipac, il gruppo di pressione pro Israele in America, oggi al Congresso) la sua ferma opposizione all’accordo sul nucleare che si sta delineando con l’Iran, ripensa a questo e altri precedenti di tensione. Dalla crisi di Suez del 1956 alla guerra del Kippur, molte sono state le scintille tra i due alleati. Ma alla fine gli interessi comuni hanno sempre prevalso sui dissensi.
Accadrà anche stavolta? È possibile, ma questa è una crisi diversa dalle altre. Non solo perché ai contrasti di politica estera si aggiungono la profonda disistima reciproca tra Obama e Netanyahu e il sospetto della Casa Bianca che, spaccando il Congresso per vincere le elezioni in Israele, stavolta sia il leader ebraico a cercare di trattare l’America come una banana republic. Tutto molto grave, certo, ma anche 35 anni fa Begin bombardò l’Iraq alla vigilia delle elezioni. Reagan aveva con lui un pessimo rapporto e reagì con mosse (come il taglio delle forniture militari) che oggi sarebbero considerate inaudite.
Obama ha denunciato, sì, il viaggio di Netanyahu come dannoso, ma si è limitato a fargli il vuoto attorno: il premier non vedrà il presidente, né il suo vice Biden, né il segretario di Stato Kerry. Ma le voci di riduzioni degli aiuti militari a Gerusalemme sono state smentite. La vera gravità di questo conflitto non sta nella pesantezza dello sgarbo di Netanyahu, nei pessimi rapporti tra i leader e nemmeno nell’approccio più muscolare di Israele. La giustificazione data ieri dal premier per il suo intervento «a gamba tesa» è la stessa di Begin: «Voi combattete per la vostra sicurezza, Israele per la sua sopravvivenza». Stavolta c’è di più: visione strategiche profondamente diverse. Obama crede che l’Iran possa diventare un fattore di (relativa) stabilità in un Medio Oriente sconvolto dalla frantumazione del mondo arabo sunnita. Netanyahu considera una visione simile un pericolo mortale. Se arrivasse l’accordo con Teheran, e Israele non cambiasse rotta, il conflitto potrebbe diventare insanabile.