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 2015  febbraio 27 Venerdì calendario

Ettore Bernabei, direttore generale della Rai dal 1961 al 1974, parla della riforma Gubitosi: «Ora è giusto cambiare modello. È vero, noi eravamo lottizzati ma non mafiosi. Appena arrivato chiamai Biagi, volevo i migliori. Ma Dc e Pci lavoravano insieme»

Presidente Bernabei, lei è stato direttore generale della Rai dal 1961 al 1974. È il padre della televisione italiana. Che idea s’è fatto della riforma ipotizzata da Luigi Gubitosi?
«Per quello che si è capito, è una buona riforma ed è stato giusto farla, purché sia un primo passo: l’informazione va cambiata e adeguata ai tempi. Ma non solo. Mi spiego: da ragazzo, a Firenze, appena finita la guerra, cominciai a lavorare alla Nazione del Popolo...».
Presidente, la prende un po’ da lontano.
«Se lei ha un po’ di pazienza vedrà che mi spiegherò bene. Dicevo, entrai alla Nazione del Popolo, che poi era la Nazione soltanto con la testata modificata come pretendevano gli alleati. Erano naturalmente cambiati anche tutti i direttori, e il giornale di direttori adesso ne aveva cinque, uno per ogni partito del Comitato di liberazione nazionale: la Dc, il Pci, il Psi, il partito d’Azione e i liberali».
Una specie di prima idea di lottizzazione?
«No. Intanto c’erano grandi personaggi, per me degli amici e dei maestri, come Manlio Cancogni, Carlo Cassola, Romano Bilenchi, Sergio Lepri. Ognuno di estrazione diversa. Io sono cattolico, il mio caro amico Lepri è crociano, Bilenchi era comunista. Lì imparai a convivere con le idee altrui e a rispettarle in nome di un’idea superiore. Così, quando arrivai in Rai...».
Indicato da Amintore Fanfani.
«Esatto. Lui suggerì il mio nome. Gli mandai una lettera di ringraziamento e lui mi rispose senza darmi nessun suggerimento, nessuna indicazione, mi suggerì una visione generale che non potevo non condividere visto che Fanfani conosceva me e come la pensavo».
Ma la politica già allora voleva comandare?
«Io penso che fare informazione significhi anche indirizzare l’opinione pubblica e ho cercato di farlo partendo dal presupposto che mai si devono nascondere le proprie idee».
Ma nella nomina dei direttori?
«Quando arrivai il direttore del tg del primo canale era un certo Picone Stella, che era lì dagli anni Trenta, pieno ventennio fascista, e il direttore dei programmi radio era il maestro Razzi, noto per avere composto Faccetta Nera. Decisi di cambiare e misi al telegiornale Enzo Biagi che l’anno prima era stato allontanato dalla direzione di Epoca da Arnoldo Mondadori su pressione dell’allora presidente del consiglio, Fernando Tambroni. Mondadori ci disse che in realtà le pressioni erano state non soltanto di Tambroni, ma di molti altri, per dire che anche a quei tempi non si scherzava».
Però?
«Però, le faccio un altro esempio: questi reduci del fascismo, per ingraziarsi la Dc, avevano mandato nelle sedi periferiche tutti i comunisti e i socialisti, e io quelli bravi li richiamai. Qualcuno andò a fare la spia in Vaticano dove, per fortuna, non abboccarono. Capirono che il mio unico scopo era di fare un buona tv con bravi professionisti».
Lei parlava con Fanfani?
«Lo andavo a trovare tutte le sere. Gli spiegavo che cosa succedeva, come procedevano i progetti. Andavo anche da Palmiro Togliatti, dal socialista Francesco De Martino. Erano visite di cortesia e, siamo tutti uomini di mondo, non soltanto di cortesia. Ma, per farvi comprendere, litigai pesantemente con Giuseppe Saragat quando volle mettere il becco nei contenuti. In quelli non ci mettevo il becco nemmeno io».
Come è successo che poi si sono così aperte le porte ai partiti?
«Spero di non prenderla troppo alla larga, ma è successo quando i dorotei si sono messi contro il centrosinistra, quando la Dc è diventata andreottiana col suo motto “meglio tirare a campare che tirare le cuoia”. Fu il segnale che si stava abbandonando una visione a favore del giorno per giorno. Io non ero già più in Rai, ma qualcuno veniva da me a dirmi che avrebbe rischiato il posto, se non si fosse schierato a favore di un Tg3 – era appena nata la terza rete – a direzione comunista. Lo prese Sandro Curzi, bravo giornalista, ma tutto era ormai declinante».
E dunque, presidente, qual è ora il passo da compiere?
«La Rai deve tornare a offrire un vero servizio pubblico. Sembra un luogo comune, ma come fa la Bbc, dove il modello della televisione interpreta ancora l’interesse nazionale, a prescindere dal fatto che uno sia guelfo o ghibellino».
Come i suoi cinque direttori alla Nazione del Popolo?
«Vede che ci saremmo arrivati?».