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 2015  febbraio 19 Giovedì calendario

Tutte le ossessioni di Fabrizio Gifuni, da Plutarco a Wall Street. Parla l’attore protagonista a teatro della Lehman Trilogy messa in scena da Luca Ronconi

Tanti tavolini apparecchiati di tutto punto, uno attaccato all’altro, nella saletta vuota. I bar di Milano a metà mattina sono così; teatri deserti in attesa del tutto esaurito della pausa pranzo. Fabrizio Gifuni è milanese fino al 15 marzo per la Lehman Trilogy messa in scena da Luca Ronconi, cinque ore per raccontare la ballata familiare di tre generazioni fino al crac di Wall Street, e spiega come ne valga la pena, «c’è una risposta del pubblico fantastica, soprattutto nella versione maratona, le due parti della Trilogia proposte in una sola serata come un’esperienza anche fisica».
Quanto conta l’esperienza fisica a teatro?
«È la base di tutto, ed è il motivo per cui ogni anno non riesco a stare senza teatro almeno per quattro, cinque mesi. Il teatro si fa con il corpo; quello degli attori ma anche quello del pubblico, molto più di quanto il pubblico stesso non immagini. E poi, ritrovarsi in un luogo dove i corpi creano un campo magnetico non ha mai avuto tanto valore come in quest’epoca in cui tutto è smaterializzato in una dimensione virtuale».
Come è stato questo primo incontro con Ronconi?
«Un maestro assoluto e un enorme regalo averlo incontrato a questa altezza della vita, insieme a una compagnia splendida».
La Trilogia esplora ed esalta le possibilità del teatro di parola. Un teatro che lei conosce bene.
«Sì, il testo resta per me l’elemento centrale di uno spettacolo. In particolare mi ha sempre appassionato il lavoro sulla lingua italiana, meraviglioso e semisconosciuto prodotto di mille lingue diverse».
È per questo che nel progetto “Antibiografia di una nazione” è partito da Gadda e Pasolini?
«Anche per questo. Poi volevo verificare quanto questi due giganti potessero aiutarci a capire il presente. Pasolini il marxista eretico, Gadda il conservatore; eppure tutti e due finiscono per avere una visione della storia ribaltata rispetto alla loro formazione. E alla fine, è come se uno bilanciasse l’altro».
Non le pare che il bisogno di un uomo della Provvidenza, vera costante del rapporto tra italiani e potere secondo Gadda, si riproponga anche nell’era di Renzi?
«Ho una certa resistenza all’attualizzazione troppo stretta dei grandi del passato. I classici sono sempre in grado di parlare al presente, non c’è bisogno di altro. Anzi, di fronte alle vicende così vistosamente “priapiche” del passato di Silvio Berlusconi, con Giuseppe Bertolucci sentimmo il bisogno di trovare una giusta distanza, visto che c’erano parti di Eros e Priapo che sembravano scritte il giorno prima. Detto questo, quello che Gadda aveva intuito, la sua ossessione e la nostra costante, era il Dna degli italiani, la nostra cronica immaturità civica. Nel bene e nel male».
Nel bene e nel male?
«Certo; da una parte la tentazione di attribuire tutti i nostri mali a un’unica causa, i politici, la casta, le istituzioni... dall’altra, il trasporto fatale per qualcuno a cui affidare il proprio destino. In questo modo non è mai colpa nostra, come se quegli orrendi figuri non fossimo».
A proposito di figuri; pare che i politici si siano messi d’impegno a fare concorrenza a voi attori, al punto da rubarvi la scena. Paura?
«Di per sé, non c’è nulla di strano. Nella politica c’è sempre stata una dimensione performativa ma i nuovi mezzi di comunicazione rendono la cosa più scivolosa. Un uomo politico non può non porsi il problema. Anche quando vorrebbe negare la propria presenza, come fa Grillo con la televisione, finisce col diventare una strategia comunicativa. Come diceva Nanni Moretti: Mi si nota di più se ci sono e sto in disparte o se non ci sono?».
Quali sono i risultati di tutto questo darsi da fare, agli occhi di un quasi collega?
«Sinceramente, il livello che ci ha circondato in questi ultimi anni è molto basso. Credo che la televisione non aiuti. E il talk show con le sue trappole comunicative non fa un buon servizio alla politica».
Senza contare che la comunicazione televisiva è ormai completamente scavalcata da quella in rete.
«Già, e i politici non so proprio come facciano. Io personalmente non ho Twitter, non ho Facebook, e devo dire che è anche una questione di tempo, perché quella è scena perenne».
Ma nell’essere sempre in scena non c’è qualcosa di disumano?
«Appunto. Se sei sempre in scena, quando studi? Quando ti prepari? Un attore sa che per andare in scena questo è decisivo. Ma se stai sempre in televisione, o mandi un tweet ogni dieci minuti, quando studi e rifletti sulla materia che ti riguarda? Quando fai le prove?».
Qual è il prossimo progetto dopo la Trilogia?
«Un lavoro che si collega all’ultimo esame che diedi studiando procedura penale sui libri di Franco Cordero. Uno spettacolo sui legami profondi che uniscono il teatro al processo penale, che nascono in Occidente nello stesso momento. Le prime rappresentazioni teatrali in Grecia fatte da Tespi avvengono negli stessi anni in cui viene istituito il primo tribunale degli uomini sulla terra, a opera di Solone».
Fu una convivenza pacifica?
«Tutt’altro. Plutarco racconta di uno scontro violento in cui Solone, dopo avere visto uno spettacolo di Tespi, lo accusa di fare qualcosa di molto rischioso per una comunità. È di fatto un fronteggiarsi tra sacerdoti, visto che sia il teatro sia il processo nascono come slittamenti del rito religioso. Poi ciascuno avrebbe preso la sua strada, guardandosi a distanza, come gemelli diversi».