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 2015  febbraio 02 Lunedì calendario

La formula della startup perfetta. Un incontro con un “investor day” per capire cosa spinge un manager a scommettere su un’idea E scoperto che il web, da solo, non porta lontano

L’atmosfera è quella rarefatta, incorporea e gracchiante di una conference call. Niente facce, solo voci che si rincorrono dentro la cornetta. Anche se ognuno è rimasto nel suo angolo d’Italia, tecnicamente è la riunione settimanale di un gruppo di venture capital, gli avventurieri del capitale che rischiano soldi e investono nelle startup, facendone, a volte, la fortuna. E, più raramente, viceversa. «Quanti soldi ci hanno chiesto?» chiede una voce. «Trecentomila euro». Segue un momento di silenzioso raccoglimento. Siamo a cavallo fra la asciutta freddezza di un’analisi di bilancio e l’adrenalina tentatrice di una mano di poker. «Il rischio con una startup – ha detto uno dei guru della materia, Eric Ries – non è grande. Semplicemente, è impossibile valutarlo». In media, almeno otto startup su dieci falliscono. Chi investe sa che deve compensare, con l’una-due che ce la fanno, quanto ha perso sulle altre. In altre parole, ogni singola decisione di investimento ha senso solo se si calcola di poter recuperare almeno dieci volte il capitale impiegato, una performance mozzafiato. Sperando che, almeno una volta, vada bene. «Riparliamoci, eh? Vediamo di capire meglio» dice la voce.
La riunione virtuale va avanti per quasi un paio d’ore. Una parata di una dozzina di aziende candidate. Vengono esaminate una dopo l’altra, in attesa di un pollice verso o meno. In realtà, sono poche le promosse, ancor meno le bocciate. Per lo più, si rinvia ad un supplemento di esame: l’incertezza è troppo alta. «Non basta che un’azienda sia nuova per parlare di startup» spiega Paolo Cellini, che insegna Internet Economy alla Luiss. «Una pizzeria resta una pizzeria, anche se va a gonfie vele. Un’azienda è una startup se è iperscalabile, un termine che significa che ha enormi potenzialità di crescita. E, di solito, l’enorme potenzialità di crescita ce l’hai nell’hightech, perché lì ci sono terreni ancora inesplorati. Pensi all’iPhone e al boom di Internet mobile, una cosa che, prima dell’iPhone, non esisteva. Il problema, con l’high tech, è che, in partenza, vedi solo fumo. La tecnologia è dubbia, non c’è riscontro di domanda, non c’è fatturato e, spesso, non c’è ancora neanche il prodotto».
«Investite in noi!» invoca dal palco il ragazzone con la maglietta rossa, fra applausi scroscianti. Eccole le startup. Siamo al primo piano della stazione Termini, a Roma, dove ha sede Luiss EnLabs, un organismo di promozione delle nuove aziende a cui partecipa l’università privata romana. Sembra una fiera, con un box per ogni startup. Messe insieme con le imprese elencate nella conference call, ne esce un panorama delle startup all’italiana che ha poco a che fare con l’idea della grande sfida tecnologica, del salto di paradigma, dell’irruzione in un mondo nuovo e carico di promesse. L’obiettivo sembra piuttosto farsi carico dei piccoli crucci quotidiani degli italiani: la lavanderia porta a porta, la piattaforma per trovare chi fa ripetizioni agli studenti, oppure una baby sitter, l’asta per smaltire abiti usati, o anche un modo per avere già il posto in fila alla posta o all’anagrafe. Ma questo è l’”Investor Day” di Luiss En-Labs, un ibrido fra una sessione di promozione aziendale e il mercato all’aperto con la parata degli imbonitori. Si presentano ai potenziali investitori startup che hanno pochi mesi di vita, ma qualcosa da far masticare a chi potrebbe mettere in gioco qualche soldo. Il ragazzone con la maglietta rossa è Giorgio Sadolfo, ceo di Filo, un’azienda che produce un piccolo gadget: con la tecnologia Bluetooth, consente di rintracciare le cose che ci perdiamo sempre, dal telefonino, alle chiavi, alla borsa. Nel gergo degli addetti, quello che sta facendo Sadolfo sul palco è un elevator pitch, l’appello da ascensore. Ovvero un discorso adatto a convincere un investitore che cominci e finisca nelle poche manciate di secondi di un viaggio in ascensore. In realtà, Sadolfo parla per una decina di minuti. In meno di due mesi, spiega, hanno venduto 1.600 pezzi. Adesso cercano mezzo milione di euro per crescere. Prima di lui, ha parlato Michele Romagnoli. La sua azienda – TiAssisto24 – offre una piattaforma gratuita per tener dietro a tutte le scadenze (dall’assicurazione al bollo) dell’auto e, con un abbonamento annuale, la ricerca di un gommista o un elettrauto dietro l’angolo, pronto a fare uno sconto. A conferma che, in Italia, l’auto tira sempre, Romagnoli è partito alla ricerca di 350 mila euro, ma gliene hanno promessi già 360 mila.
Romagnoli e Sadolfo sono già un pezzo avanti in quello che è il calvario abituale delle startup. Cellini le definisce «le tre valli del deserto da traversare», dove il deserto è identificato non dalla mancanza d’acqua, ma di soldi, e le tre valli sono i tre abituali round di finanziamento. Il primo è quello che gli americani chiamano «3 F»: founders, family & friends. In sostanza, quello che c’è in banca, più i prestiti del suocero e di un vecchio compagno di scuola. Di solito, con questo primo giro si riescono a mettere insieme, più o meno, 50 mila euro. Sadolfo e Romagnoli sono partiti con anche meno. Naturalmente, quei soldi finiscono subito. Ecco che entrano in scena i business angels. Non è un modo di dire, si chiamano proprio così, angeli degli affari, riuniti in associazioni che organizzano incontri con startup ai primi vagiti. C’è il classico discorso dell’ascensore, poi la questua da cui escono impegni – non vincolanti – a pompare un po’ di soldi nella nuova azienda, in cambio di qualche quota azionaria. Spesso, gli impegni vengono rimangiati, osserva Cellini, e il tutto può sembrare un po’ alla buona, a mezza strada fra il volontariato e la riffa della parrocchia. Ma sono i soldi che consentono agli aspiranti imprenditori di darsi una struttura e, di solito, anche un organico, per prepararsi al passo successivo.
La terza valle è, spesso, l’accesso ad un “acceleratore”, come Luiss EnLabs (ma, in Italia, ci sono anche H-Farm, Picampus, Digital-Magics). In cambio di una quota azionaria del 10-15 per cento, gli acceleratori investono sui 60 mila euro in ogni singola startup, quasi sempre parte in denaro, parte in servizi (una sede, connessioni, test ecc.). È il momento in cui la startup realizza il suo prodotto e si affaccia sul mercato vero e proprio, la fase in cui abbiamo visto Sadolfo e Romagnoli. È da qui che la nuova azienda spicca il volo e cominciano le cose davvero difficili. Paradossalmente, infatti, dice un esperto di venture capital americano, Matt Niehaus, i primi soldi sono i più facili. Il rischio, anzi, è di metterne insieme troppi e partire subito di corsa. Bisognerebbe preoccuparsi di avere prima le idee chiare su cosa fare e come farlo, passo dopo passo. Il problema, dice lo stesso Niehaus, è che non si può. Oggi, metter su un business basato sul web costa sempre meno e si fa in un attimo. Di conseguenza, il tempo a disposizione a pochissimo: «Non fai in tempo ad avere un’idea e scopri che l’hanno già avuta in cinque o sei».
È la strettoia che la fa da assoluta protagonista nelle conference call, come quella da cui siamo partiti. Quello è l’esame di laurea delle startup, perché lì, dalle società di venture capital (70 milioni di euro i soldi disponibili in Italia) possono arrivare gli investimenti da 3-400 mila euro che consentono di cominciare a marciare a pieno regime. E, dal rimuginare via telefono, si scopre che dalla strettoia si esce perché non basta l’idea a fare il successo di una startup. L’idea da cui sono partiti gli aspiranti imprenditori sembra la carta vincente, ma, in realtà, non è tutto. «L’idea – dice Sadolfo – conta per il 30 per cento». E l’altro 70 per cento? «Il team. Un team coeso, determinato. Nel nostro caso, vedere che tutti noi avevamo rinunciato ai posti di lavoro che avevamo per inseguire Filo ha dato l’impressione che facciamo sul serio».
Le voci che animano la conference call darebbero ragione a Sadolfo. Nel batti e ribatti della discussione, l’idea su cui nasce la startup è solo una delle carte sul tavolo e neanche quella di cui si parla di più. I termini che ricorrono sono, piuttosto, quelli sofisticati delle teorie di management: target di consumo, business plan, leadership aziendale, competenze del management, flessibilità strategica. La realtà che indicano, però, è semplice. Basta vedere l’elenco delle bocciature. Il pranzo pronto alla porta? Non è scalabile. Cioè, non può crescere abbastanza, perché richiede troppi addetti e una distribuzione troppo complessa. L’asta degli abiti usati? «Non mi pare che abbiano chiaro in mente dove fare i soldi». La piattaforma web che ti porta l’idraulico a casa? Tutto bene, ma l’imprenditore «è un problema»: convinto di avere tutte le soluzioni in tasca, mette bocca dappertutto, non sente ragioni. Più che determinato, cocciuto. Meglio lasciarlo perdere. La conclusione, a pensarci bene, non è neppure una sorpresa: il segreto non è l’iPhone. È Steve Jobs.