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 2015  febbraio 02 Lunedì calendario

Le diceva: «Devi mettere il velo. E i bambini non devono andare né a scuola né al calcetto, perché nel Corano non ci sono queste cose». La minacciava: «Se non ti converti all’Islam ti taglio la gola». Per due anni, una donna mauriziana ha subito soprusi e violenze dentro una piccola abitazione del centro storico di Palermo. Poi ha trovato la forza di denunciare il marito

Le diceva: «Devi mettere il velo. E i bambini non devono andare né a scuola né al calcetto, perché nel Corano non ci sono queste cose». La minacciava: «Se non ti converti all’Islam ti taglio la gola». Per due anni, una donna mauriziana ha subito soprusi e violenze dentro una piccola abitazione del centro storico di Palermo. Poi ha trovato la forza di denunciare il marito. E si è presentata alla squadra mobile. «Tutto è cominciato quando lui si è convertito all’Islam più radicale – ha sussurrato ai poliziotti – da quel momento la nostra vita è diventata un inferno».
Adesso, il marito, suo connazionale, è sotto processo al tribunale di Palermo, per maltrattamenti. Si difende, dice che voleva essere solo un buon padre, chiama a discolpa amici e parenti. Il suo avvocato, Angelo Raneri, ribadisce: «Non c’è stato mai alcun dissidio per motivi religiosi, solo normali contrasti fra coniugi». Ma le accuse contro il cittadino mauriziano sono pesanti. La moglie le ribadisce tutte in aula.
«Siamo ormai separati – esordisce T. davanti al giudice Alessia Geraci – un tempo eravamo sposati secondo la religione indù. Poi, dopo che abbiamo avuto tre figli lui è diventato musulmano. E voleva che anche io lo diventassi. Ma non mi sono convertita. Voglio che i miei figli crescano all’italiana».
È una donna minuta quella che parla in un’aula di giustizia. Ha 46 anni, e una voce decisa. «All’inizio, non accettavo neanche che si fosse convertito alla religione musulmana. Poi, gli amici iniziarono ad insistere: “Devi farlo per i tuoi figli, per la tua famiglia”. E ho accettato la sua nuova fede. Ma dopo qualche tempo mio marito cominciò ad essere violento: diceva che dovevo mettere il velo, che dovevo pregare cinque volte al giorno. Diceva pure che i figli non dovevano andare a scuola e che dovevano leggere solo il Corano».
Nel racconto di questa donna ci sono tutti gli incubi di due anni. «Diceva che non dovevamo uscire di casa, controllava il telefono, metteva la catena al computer. I miei figli non potevano uscire neanche per un compleanno dei loro amici. A me diceva che non dovevo andare a lavorare, perché nel Corano è scritto che la moglie non deve lavorare».
In quella piccola casa nel cuore di Palermo, i ricatti aumentavano sempre più: «Dovevo mantenere i miei figli, non potevo non andare a lavorare. Pulivo le scale, guadagnavo poco. Lui ogni tanto portava a casa un po’ di spesa per i bambini, ma non comprava niente per me. Una volta, quando ho avuto le mestruazioni, gli ho detto: comprami gli assorbenti. Mi rispose che non aveva soldi per queste cose. E allora ho usato uno straccio».
Dopo gli abusi e le vessazioni, sarebbero arrivate anche le violenze fisiche: «Scoprì che ero andata a lavorare e mi diede botte davanti ai ragazzi», racconta la donna al giudice. «Un’altra volta, ha picchiato anche uno dei figli, perché alle quattro di notte non pregava Allah con lui».
Il padre finito sul banco degli imputati non voleva neanche un pediatra per i suoi bambini: «Diceva che tutto si doveva curare con la preghiera – racconta l’ex moglie – E io andavo di nascosto dal medico. Qualche tempo fa, il piccolo ha avuto bisogno di un intervento a un testicolo, e lui non è venuto neanche in ospedale. Sono dovuta andare da sola, pioveva, ho preso l’autobus per fare l’intervento. E per due giorni siamo rimasti ricoverati. Lui non sapeva, non ha voluto sapere. E io intanto continuavo a dare le medicine di nascosto ai miei figli».
Chiede il pubblico ministero Fabiola Furnari: «Che ruolo aveva lei nell’educazione dei suoi figli?». La voce della donna si fa tremante: «Non potevo dire niente. Ripeteva: io sono padre, io sono marito, spetta a me decidere, la donna non deve parlare, non deve avere niente». Ma, alla fine, questa donna coraggiosa ha deciso lei per il futuro dei suoi figli, anche grazie al sostegno dell’Unione donne italiane, che l’ha sostenuta nel percorso di denuncia. «Lo stesso giorno che mi picchiò andai dalla polizia – spiega – con il piede mi aveva colpito lo stomaco. E i bambini avevano paura, dovevo difenderli».