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 2015  febbraio 02 Lunedì calendario

Terni, la crisi di una città appesa al destino di una fabbrica. La Thyssen rappresenta il 21 per cento del Pil totale dell’Umbria. Le paure, le speranze e le storie di una comunità che resiste grazie all’acciaio. Ma per quanto ancora?

Raccordo Orte-Terni, uscita Terni Ovest. Un paio di chilometri ed ecco l’ingresso della città di San Valentino: Piazzale dell’acciaio. Piove. Il cielo, le montagne, i primi condomini e capannoni, un parco lungo il Nera, la strada, tutto tende al grigio. Terni è la sua conca. Gelida d’inverno, bollente d’estate. Accanto al cancello principale di viale Brin un lungo striscione: “Il lavoro chiave essenziale della questione sociale, Giovanni Paolo II – Salviamo la AST”. Non ci sono presìdi, il viale è deserto. Qualche bicicletta legata. Si usano anche nello stabilimento per muoversi da una parte all’altra. Bacheche con annunci sindacali, note aziendali, gite per i dipendenti. Firmi un foglio, consegni un documento, ti danno mappa, caschetto, un cartellino “visitatore”. All’ingresso tutto è pulito e accogliente. Un manifesto: “Le acciaierie di Terni. 120 anni di acciaio e di storia d’Italia”. Passi i tornelli. Anche dentro regna la desolazione. Ma è apparente. Gli operai lavorano, non li vedi. Stanno nei capannoni dove si fonde, si taglia e si raffredda – il fuoco e l’acqua. Una città: strade, reticoli di rotaie, ponti mobili, torri, magazzini. Quello che prima era un accenno, ora è un rombo smorzato perenne, intervallato da sgrulloni di pioggia e dagli allarmi dei mezzi pesanti. Vederli la prima volta è straniante. Per uno bambino negli anni ’70 e adolescente negli ’80, è la materializzazione delle macchine dei cartoni giapponesi, Gundam, Ufo Robot. Resti a bocca aperta.
Trasportano nastri, lingotti, bramme, tonnellate d’acciaio in ogni forma. Cammini tra le pozzanghere. Contenitori di metallo pieni di provini d’acciaio. File di elettrodi lunghi metri. C’è l’infermeria. Rimasugli di giardinetti. Vapori che escono da tombini o tubature. Bramme ancora calde, sulle quali, nonostante la pioggia, viene versata acqua di raffreddamento. Poi c’è una specie di capanno. Un presepe. I magi, una stella. Tutto di metallo. Cartelli sui muri: “qualità più sicurezza per vincere le sfide”, “pensaci prima”. Gli uffici sindacali di mattoni rossi, l’indicazione “cappellano”. Come al fronte. In lontananza la città nella città continua. Non ce la farai mai a vedere tutto. Entri in un fabbricato sconfinato. Cominci a sentire la polvere. Tra i tubi, una piccola colonia di gatti. Non sai dove guardare. Ci sono fari e luci, eppure regna la penombra. Il metallo fuso è contenuto in speciali secchie di colata, le siviere. Ne vedi di ogni grandezza. Nere. Possono contenere acciaio fuso per pezzi unici fino a 500 tonnellate, “il più grande d’Europa” dice con orgoglio un operaio. Carri ponte alti decine di metri. Spostano altre centinaia di tonnellate. Un dedalo di scale, passaggi, impianti. Il rombo di fondo cresce. Una piccola edicola con dentro la Madonna. Più t’addentri, più la gola ti dà fastidio. Nemmeno t’accorgi di camminare sopra un manto di polvere biancastra. Si sale. Il frastuono aumenta. Arrivi ai forni. Sono due, il 4 e il 5. Ma il 4 lavora solo su 15 turni, il fine settimana è spento. Il 5 lavora su 21 turni. Entro nella centrale del 5, c’è una squadra. Uomini tra i 30 e i 50 anni. Da Amelia, Sangemini, Ferentillo, Stroncone, Spoleto. Da tutto il ternano e oltre. Percepisci la potenza del forno: oltre i vetri protetti da paratie c’è il vulcano che fonde il metallo. Un operaio dice che impari subito a lavorare con l’udito: “a seconda dei rumori, capisci che succede nel forno”. Anche dove ci sono i computer, dove tutto è sigillato, c’è uno strato di polvere. Nonostante pulizie e aspiratori. “L’altro giorno è passato uno della sicurezza, ha detto che è tutto pulito... Senti? Sembra de sta’ in montagna!” Ridono tutti. “Portace la famija in vacanza, allora!” Ridono ancora più forte. All’accordo del 3 dicembre si crede poco. Nessun licenziamento, 300 persone fuori in cambio di alcune decine di migliaia di euro e l’obbiettivo: un milione di tonnellate d’acciaio l’anno. Una chimera agli attuali ritmi produttivi: turnazione ridotta in uno dei due forni, con fermi a singhiozzo e a volte ritardi nell’approvvigionamento di nichel e cromo, basilari per l’inossidabile. Il piano iniziale era il licenziamento di 550 persone e la chiusura di uno dei forni. Sarebbe stata la fine. Uno mi fa: “Lo vedi il forno? Beh, se torni tra qualche anno ce trovi du’ belle piscine, da’ retta...”. Rassegnazione o realismo, oppure entrambi. Arrivano i cestini del pranzo. A presto. In bocca al lupo. Sorrisi. Su un box di contenimento di una siviera la scritta a vernice “grifo merda”, l’odiata Perugia. L’ultima immagine è dall’alto, da un finestrone: la città nella città, a perdita d’occhio. Su viale Brin sei ancora stralunato. Non sai bene cosa hai visto. La sede della Cgil è in centro, non lontano da Corso Vecchio. I manifesti ripercorrono la storia della Confederazione e quella operaia cittadina. Ed è la storia della Thyssen. Cosa sarebbe Terni senza la AST? “Una città di pensionati” dice laconico Andrea Corpetti, segreteria Fiom. La Thyssen rappresenta il 21% del PIL dell’Umbria. Senza la fabbrica, il nostro Paese sarebbe totalmente importatore di acciai speciali. La sorte della Ast non riguarda solo quei paesi vecchi di secoli arroccati intorno alla conca e che hanno sfornato generazioni destinate a spaccare terra o fondere acciaio: il lavoro svolto qui si riverbera su quello di altre decine di migliaia di persone in tutta Italia.
Attraversi la città verso nord, fino ai piedi del monte Eolo, in periferia. Condomini popolari e villette; chiazze di orti, qualche casale. Una strada, “via del cinghiale”, ti strappa un sorriso e ricordi di epici racconti di cacce ascoltati al bar del tuo paese, Lugnano in Teverina. Anche da lì c’è chi parte ogni giorno per varcare il cancello di Viale Brin. Giorgio ti accoglie con una stretta di mano vigorosa, “Un goccio di prosecco?”. Classe ’54, è entrato nel ’76 nell’allora “Terni”. Vent’anni operaio, poi capoturno, impiegato, ma sempre sulla linea a occuparsi dell’impianto. Per un profano “acciaieria” indica l’industria; per un operaio vuol dire un mondo a sé. Giorgio era un ragazzo con un diploma da geometra. Lo chiama il collocamento. “Allora, ogni poco, la Terni assumeva”.
Passa tre giorni tra visite mediche e burocrazia. “Poi uno fa: in che reparto lo mandiamo questo? E l’altro: in acciaieria. E io penso: ma come, non ci sto già?”. Manda giù un goccio, sorride: “L’acciaieria... Quando timbravi, e dopo t’infilavi la tuta, il casco, i guanti sapevi che la stozza (la giornata) te l’eri guadagnata già”. L’acciaieria vera e propria è la linea a caldo. La parte fusoria. Quella che va dal parco rottami fino alla colata continua, passando per i forni e gli impianti di affinazione dalle sigle misteriose: AOD, ASEA, LF.
Il Primo Maggio i dipendenti possono portare visitatori. “Mia moglie non l’ho fatta mai venire. Meglio non vedesse dove lavoravo”. Giorgio avrebbe voluto fare quello per cui aveva studiato, il geometra. “Ma sono stato bene. Ero orgoglioso del mio lavoro”.
Per produrre acciai speciali, bisogna saper usare con perizia elementi particolari. “La prima busta fu di 175 mila lire. Mio padre, operaio specializzato edìle, non arrivava a 100 mila”. I rapporti col “padrone” erano diversi: “Per carità, quando c’era da rompere si rompeva. Però, se rendevi più efficiente l’impianto, lo riconoscevano e premiavano tutti”. E oggi? “Non avrei mai immaginato che volessero chiudere un forno”. Finisce il suo prosecco. “Se chiudi un forno, è finita”. E se chiudono le acciaierie? “Chiude Terni”. Si torna sempre lì. Una città in simbiosi col proprio mastodontico stabilimento. Non sarà un caso che all’uscita dalla stazione il primo monumento è la pressa da 12 mila tonnellate, poi sostituita da un mostro da 15 mila tonnellate. È il biglietto da visita di Terni. Non San Valentino, patrono e santo degli innamorati. Non una storia addirittura pre-romana. Ma lo stabilimento, l’acciaieria. Un mondo a sé. “Il mondo dei vinti” ti ronza nella testa. E nella gola ancora quella polvere che non se ne vuole andare.