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 2015  febbraio 02 Lunedì calendario

Giampaolo Pansa, ritratto di un qualunquista scomodo nato con la camicia. La politica, i vinti, l’infanzia e i difetti: «A volte sono troppo buono. E poi fumo troppo, e non faccio ginnastica»

Squilla il telefono. «Sono Giampaolo Pansa. Mi spieghi un po’, su che cosa vuole fare questa intervista?».
Beh… Su come si diventa un intellettuale scomodo.
«Eh eh. Supponendo che io lo sia».
Supponiamo.
«Prima devo dire che non mi considero un intellettuale, è un titolo che non merito. Troppo pesante per uno che ha sempre fatto il giornalista».
Allora solo scomodo. La passione per i vinti, i libri revisionisti: come mai?
«Molto deriva dalla mia data di nascita: il 1935. Vivevo in una piccola città della provincia piemontese, Casale Monferrato e, quando la guerra è finita, ho visto tutte le infamie: partigiani fucilati, fascisti massacrati, donne della Rsi portate in piazza e a cui venivano tagliati i capelli a forza, bombardamenti, poco da mangiare. Avevo dieci anni, e da allora ho sempre avuto una passione irrefrenabile per raccontare quello che ho visto. Mi sono laureato in Scienze politiche con una tesi sulla guerra partigiana tra Genova e il Po. Non ho più smesso di occuparmi di quella storia».
Ma quando ha iniziato a scrivere proprio dei vinti?
«Quando mi sono stufato di scrivere di politica. Poi nel 2002 ho scritto I figli dell’Aquila, su quei ragazzi italiani che anziché entrare nelle file dei partigiani avevano deciso di combattere l’ultima battaglia del Duce».
E che cosa è successo dopo?
«Il libro andò bene e così scoprii che dietro la mia porta c’era un mondo che attendeva di essere raccontato. Aspettavano che uno come me, che non era mai stato fascista, mettesse nero su bianco che nel periodo dal ’43 al ’48 c’erano anche loro. Almeno questo, che c’erano».
Così è nato Il sangue dei vinti?
«Il titolo l’ha inventato la signora che mi sta accanto da venticinque anni. Grisendi, posso dirlo? È pure un’autrice, Adele Grisendi, ha scritto Giù le mani, maschio. Una dirigente sindacale».
Un successo enorme. Se lo aspettava?
«No. Il sangue dei vinti è uscito a ottobre 2003, a Natale aveva già venduto più di 300mila copie. Ormai ha superato il milione. Sperling&Kupfer ha fatto un sacco di soldi, ma anche Adele e io...».
Le reazioni però se le aspettava.
«Per me era come fare una cronaca: non potevo non scrivere metà di quello che avevo visto. Ancora mi fermano, l’altro giorno a Roma una signora mi ha chiesto: “Posso stringerle la mano”?».
Perché secondo lei?
«Hanno visto nel Pansa uno che raccontava anche le loro sofferenze, non solo quelle dei partigiani. Ma se lo avesse scritto Almirante, per dire, non avrebbe avuto lo stesso successo. Perché io non venivo da quel mondo. Fatto sta che nessuno dei tanti episodi che ho raccontato è stato mai smentito. Neanche una rettifica».
Ma da giovane che cosa pensava della destra?
«Non mi piaceva, però mi dicevo: lasciamo nel silenzio milioni di italiani che sono rimasti vicini a Mussolini? Sono sempre andato per la mia strada».
Qual è la sua strada?
«Primo, raccontare storie che in qualche modo avessero incrociato la mia vita. Secondo, il piacere di scrivere. A volte mi dico che lo farei anche gratis. E Adele: “Per favore Giampa, non dirlo a nessun editore”».
Scrive sempre?
«Sempre. Al mattino mi sveglio e scrivo. Ho in classifica due libri: Bella Ciao e Eia Eia alalà, entrambi pubblicati con Rizzoli».
Che cos’è Eia eia alalà?
«Un grido di vittoria vecchissimo, ripreso da D’Annunzio durante l’impresa di Fiume».
Quando ha scritto Il sangue dei vinti era ancora all’Espresso. Che cosa le hanno detto?
«E che cosa potevano dirmi? Niente. Fra l’altro ero condirettore, non potevano vietarmi di pubblicare».
Dopo però...
«Dopo sono arrivati dei siluri pazzeschi. Sciocchi questi oppositori. Attaccandomi hanno fatto il gioco di Pansa, perché tutti si sono detti: ma che cavolo avrà scritto per prendersi queste bacchettate dal suo giro? Io ci sono rimasto 31 anni, fra Repubblica ed Espresso».
Hanno tentato di riconquistarla?
«Ezio Mauro una volta mi ha detto: perché non torni a scrivere per i tuoi lettori di una volta?».
Perché?
«Perché questo è il mercato. Perché i lettori dovrebbero comprare storie che conoscono già? Comprano Pansa perché quel venduto maledetto fascista scrive cose mai lette. Comunque non ho mai preso schiaffi senza reagire. Quindi mi fregavo le mani e rispondevo. Per un paio d’anni c’è stato un serraglio molto divertente».
Cito: vergognoso, voltagabbana, robe simili vanno proibite per legge.
«Ah ah. Questo non è niente».
Hanno anche detto che ha scritto Il sangue dei vinti per compiacere Berlusconi e diventare direttore del Corriere.
«Mi hanno proposto di dirigere giornali grandi e medi e ho sempre rifiutato. Ma poi a Berlusconi che gli frega del Sangue dei vinti?».
Non ne ho idea. Ma qualcuno non le ha più rivolto la parola?
«Degli amici veri non ne ho perso nessuno. Magari non hanno apprezzato, ma sono rimasti amici. La verità è che l’Italia delle persone perbene è più vasta di quella che immaginiamo. Del resto, sa una cosa?».
Che cosa?
«Mi considero nato con la camicia. Ho avuto un’infanzia felice, un tesoro che può essere dato solo dai genitori e dura tutta la vita. Sono fortunato e questo ha avuto un riverbero positivo sulla mia vita e il mio lavoro».
Che cos’è un’infanzia felice?
«Nessun lusso eh. Niente motoretta, niente vacanze, la prima auto l’ho comprata quando ero già assunto alla Stampa. A 18 anni con gli amici discutevamo per ore su due temi. Il primo: Dio esiste o no?».
Il secondo?
«Qual è la donna con cui vorresti andare a letto?».
È un provocatore?
«Mi sento Crozza quando imita Razzi... Boh. La domanda è giusta, ma non ho mai scritto neanche una breve per provocare qualcuno».
A una festa dell’Unità chiese a Occhetto di dimettersi...
«Eravamo a Reggio Emilia nel ’92, pieno inizio furibondo di Tangentopoli. Occhetto a Milano aveva detto: “Non sapevo niente di queste cose”».
Non gli credeva?
«Io ho solo detto che i casi erano due: o era un ingenuo, un incompetente, e quindi non poteva guidare un partito importante. Oppure era un bugiardo, quindi non poteva guidare un partito importante».
E...?
«Ci fu un’ovazione. Pure i compagni ne avevano le scatole piene. Del resto io non ho mai avuto traffici coi partiti, nessun incarico per merito loro. Ho sempre detto quello che mi pareva. Ecco, sulla scomodità non so, ma certo non le mando mai a dire».
Ma gli italiani sono conformisti?
«Non gli italiani, gli esseri umani. Chi è debole, spesso non esprime del tutto la sua opinione. Io sono garantito da tanti anni di lavoro, dalla mia pensione, dai diritti d’autore e soprattutto sono vecchio. Lei avrà problemi infiniti, una giornalista ancora giovane, con due figli piccoli, io no».
Grazie. Senta, è pure pessimista?
«Come carattere no, sono ottimista come mia madre. Lo sono molto da cittadino, sulla sorte dell’Italia».
Le ideologie possono funzionare?
«Spesso servono a non farti vedere com’è fatta la realtà. Ne diffido».
È qualunquista?
«Un perfetto qualunquista. Confesso che più invecchio, più sono scettico e ho fiducia solo nelle persone che amo, non certo del primo megafono con uno slogan».
Festeggia il 25 aprile?
«Mai festeggiato. È stato subito una festa di partito. Però devo la mia libertà a tanti ragazzi che sono morti anche per me, e ricordo i tanti morti dall’altra parte. Insieme hanno costruito un’Italia poi comoda per tutti, grazie a una cosa che non abbiamo più: la Democrazia cristiana».
Che fa, elogia la Dc?
«Confesso che, se rinascesse oggi, in mano a certi uomini perbene, forse andrei a votarla. Anche se ha tante colpe la Balena bianca».
Ma è diventato di destra, come dicono alcuni?
«Può anche essere, ma non mi sento né di destra, né di sinistra, né di centro. Comunque io le accetto tutte».
È fazioso?
«Non credo. Schietto direi. Militante mai, non saprei come militare».
C’è qualcosa di cui si pente?
«Avrei voluto imparare a suonare il piano».
E un difetto?
«A volte sono troppo buono. E poi fumo troppo, e non faccio ginnastica».