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 2015  febbraio 02 Lunedì calendario

Tomaso Bruno ed Elisabetta Boncompagni sono tornati in Italia ieri, dopo cinque anni di detenzione in India. La Corte suprema di New Delhi ha fatto marcia indietro e li ha assolti. I due erano stati condannati all’ergastolo per omicidio di Francesco Montis, fidandato di Elisabetta, morto in ospedale dopo essersi sentito male in un albergo di Varanasi, ma le prove a carico erano in gran parte basate sull’autopsia realizzata da un oculista in condizioni di degrado, e suffragate da un presunto movente passionale

Stanchi e frastornati, ma felici. Tomaso Bruno ed Elisabetta Boncompagni sono tornati in Italia ieri, dopo cinque anni di detenzione in India con l’accusa di omicidio. Una storia che è stata associata a quella dei Marò e che però si è conclusa positivamente: la doppia condanna all’ergastolo è stata infatti annullata dalla Corte Suprema di Nuova Delhi, che dieci giorni fa li ha assolti entrambi dalle accuse. «Spero che anche la complessa vicenda dei Marò possa risolversi presto» ha commentato Tomaso Bruno dopo l’arrivo in Italia, senza voler entrare nel merito di un impasse giudiziario che ha poco in comune con quanto vissuto dai due turisti italiani, accusati di aver ucciso Francesco Montis, fidanzato di Elisabetta e amico di Tomaso, morto in ospedale dopo essersi sentito male in un albergo di Varanasi.
FINE DI UN INFERNO
«Ci sono. Eccomi qui» sono state, sabato notte, le prime parole del trentaduenne ligure, atterrato all’aeroporto di Milano Malpensa su un aereo proveniente dalla capitale indiana. La sorella Camilla e i genitori Marina e Luigi sono corsi ad abbracciarlo. Cori da stadio reinterpretati dai compagni di sempre di Albenga, la città del Savonese in cui viveva, per festeggiare il lieto fine di una brutta storia: «Tommy è libero, Tommy è libero». Cappellino e piercing, Tomaso è apparso in salute nonostante cinque anni di detenzione in condizioni difficili, in celle-camerate da 150 detenuti e temperature fino a quaranta gradi: «Il letto erano delle coperte buttate per terra. Mi alzavo alle cinque, facevo conversazione e giocavo a cricket con gli altri detenuti. Con Elisabetta mi incontravo solo il sabato e durante la settimana non avevo nessun altro contatto – ha raccontato Tomaso, che per cinque anni non ha potuto parlare al telefono con i genitori e ha imparato l’hindi per poter comunicare con gli altri detenuti – C’erano rapinatori, assassini, ladri, truffatori: mi hanno rispettato come io rispettavo loro. Ho sofferto tantissimo, ma sapevo che alla fine la verità sarebbe venuta a galla. Ora vivo davvero da uomo libero. Sono rimasto indietro di cinque anni, ma oggi è il giorno in cui rinasco un’altra volta. Ora voglio pensare solo a festeggiare con i miei cari».
FAMIGLIE STRAVOLTE
Se ad Albenga la gioia ha coinvolto tutta la città – con tanto di festa in piazza organizzata dal sindaco – nella città di Elisabetta Boncompagni, Torino, è bastato un pranzo in famiglia per celebrare il giorno più bello. Modi diversi per gioire della fine di un dramma che li ha visti uniti dall’inizio alla fine: con Tomaso, la 41enne Elisabetta ha infatti condiviso due processi e due condanne ma anche l’assoluzione definitiva e, infine, il rientro in Italia. «È proprio una bellissima domenica, la più bella da cinque anni – ha detto il padre Romano – Siamo felici. L’abbiamo trovata benissimo, molto reattiva, sinceramente temevamo che si fosse deperita. Ringraziamo tutti coloro che ci hanno aiutati. Ora chiediamo solo un po’ di privacy». Cinque anni di processi che hanno pesato come macigni sulle due famiglie coinvolte, emotivamente e finanziariamente. La terza, quella di Francesco Montis, si è invece espressa con durezza a proposito della scarcerazione, criticando la decisione della Corte Suprema.
IL PENSIERO AI MARÒ
Le prove a carico dei due erano in gran parte basate sull’autopsia realizzata da un oculista in condizioni di degrado, e suffragate da un presunto movente passionale. Condanne annullate definitivamente dal massimo grado di giudizio indiano. La mamma di Tomaso, Marina Maurizio, a Varanasi era diventata, suo malgrado, una presenza assidua. È stata lei a tenere alta l’attenzione sul caso, quando i riflettori sembravano spegnersi e la vicenda dei Marò monopolizzava l’interesse di media e opinione pubblica. Intanto, l’ambasciata italiana e la Farnesina continuavano a lavorare alla soluzione del caso, che alla fine è arrivata.