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 2015  febbraio 02 Lunedì calendario

Alberto Mondadori scrive a Montale, Ungaretti, Quasimodo, Einaudi, Bompiani, Rizzoli e, primo fra tutti, il padre Arnoldo con cui è affettuoso, critico, consenziente, dissenziente. Le lettere di un editore che raccontano la sua vita, le sue idee e i suoi sogni, come quello di sprovincializzare la società nazionale con i suoi libri

Un altro mondo. Un’altra società. Alberto Mondadori fu un uomo inquieto, appassionato, un editore che ha lasciato il segno, ma anche un poeta, un intellettuale che operò con la voglia di far sì che gli uomini del Novecento passati attraverso due guerre mondiali, la bomba atomica, la Shoah, il Gulag potessero avere, con l’aiuto di una cultura nuova e diffusa, un futuro migliore. È uscita ora dal Saggiatore, la casa editrice da lui fondata nel 1958 che prese il nome dallo scritto di Galileo Galilei, una raccolta di lettere che è il suo fedele ritratto: Ho sognato il vostro tempo (pp. 189, e 14), a cura di Damiano Scaramella, con un’introduzione di Luca Formenton, il nipote e successore.
Gli interlocutori delle lettere sono i grandi della terra di allora, Kennedy, Krusciov, gli scrittori conosciuti in tutto il mondo, Faulkner, Hemingway, Sartre, i poeti, Montale, Ungaretti, Quasimodo, Sereni, gli scrittori di casa, Palazzeschi, Buzzati, Vittorini e con loro personaggi di gran rilievo, Ranuccio Bianchi Bandinelli, Bernard Berenson, Roberto Longhi, Giacomo Debenedetti, Enzo Paci. E poi gli editori, Giulio Einaudi, Valentino Bompiani, Andrea Rizzoli e, primo fra tutti, il padre Arnoldo con cui Alberto è affettuoso, critico, consenziente, dissenziente. La casa madre pesa sui figli che allora fuggivano, tornavano, fuggivano di nuovo alla ricerca di se stessi e la fuga svelava spesso l’amarezza della sconfitta.
Alberto Mondadori è pieno di progetti, di idee, ama nel profondo i libri, li considera persone vive, crede nella loro funzione, per lui sono lo strumento principe del progresso sociale e civile di un popolo. Non è ancora finita la guerra quando in una lettera confida al padre qual è la sua idea di editoria fondata sulla supremazia dell’intelligenza, espressione della letteratura colta e insieme della «letteratura più umana e più immediata», in grado di creare una classe dirigente e una massa di lettori capaci di educarsi con la lettura e di costituire così la riserva, il rinnovamento di quella classe dirigente.
Le lettere, tematicamente divise, comprendono i due periodi della vita di Alberto, direttore editoriale della grossa Mondadori, con una funzione essenziale nella creazione di collane portanti, la Biblioteca moderna, i Narratori italiani, lo Specchio, gli Oscar (più tardi nel tempo) e poi creatore del suo Saggiatore, con l’ambizione di sprovincializzare la società nazionale e la sua cultura. Fu lui a far conoscere in Italia i grandi autori dell’antropologia, dell’etnologia, della psicoanalisi, dello strutturalismo, da Husserl a Merleau-Ponty, a Lévi-Strauss, a Jung, a Karl Jaspers, a Jean Starobinski, a Aleksandr Solzhenitsyn, a Konrad Lorenz, a Viktor Sklovskij, senza dimenticare gli studiosi italiani, da Antonio Banfi a Ernesto De Martino, agli scrittori e ai poeti come Amelia Rosselli.
È inimmaginabile, oggi, la figura di Alberto Mondadori in un Paese come il nostro, dove l’impegno di non pochi editori è dedicato soprattutto all’ossessiva ricerca dei bestseller d’annata, risolutori di tutti i mali, e al ticchettio dei registratori di cassa. (La cultura è verybella, ma non dà denaro).
Il libro – il mestiere dell’editore – è interessante, spesso divertente. Gli autori di frequente sono insopportabili, esistono soltanto loro, esigono attenzione, pubblicità, contratti congrui alla loro fama anche se non la posseggono. Quasimodo protesta, ce l’ha con Montale, con Saba, i rivali. Buzzati con Il deserto dei tartari ha venduto 32 mila copie e 65 mila con Un amore. «L’Espresso» pubblica raramente una recensione ai libri del Saggiatore, Alberto lo fa sapere a Carlo Caracciolo. Dice di no a un ministro dc che gli raccomanda un poeta arabo. Manda al diavolo uno scrittore, lo libera dell’opzione decennale, gli restituisce un romanzo, gli augura miglior fortuna. È felice di far sapere a Kennedy che è uscita la primissima copia dell’edizione italiana del suo The Strategy of Peace, chiede a Krusciov (1961) la prefazione a una raccolta dei più celebri proverbi russi. Senza successo. Non ha successo neppure con Montale, al quale (1947) chiede di tradurre La montagna incantata di Thomas Mann. (Avrà più fortuna, nel 1949, Gianni Antonini, che per le edizioni di Enrico Cederna riuscirà a far tradurre al poeta l’ Amleto ).
Si dà da fare per il Nobel a Ungaretti, nel 1954, e a Bacchelli due anni dopo. Si interessa del Bagutta, scrive una lettera amareggiata e infastidita a Alba de Céspedes che ambiva al Viareggio.
Non è mai banale, non usa la diplomazia ipocrita di certe case editrici. Ci sono nel libro dei tratti poetici, come quando racconta a Palazzeschi com’è nata la Biblioteca delle Silerchie, una collana: «L’ho battezzata col nome della strada dove sorge la mia casa di Camaiore. Poi ho anche saputo che coi rami delle “Silerchie”, arbusti che nascono sulle rive dei fiumi, si fanno talismani per tener lontano il male».