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 2015  febbraio 02 Lunedì calendario

Nessuno sa quando uscirà il prossimo numero di Charlie Hebdo. Spiega il disegnatore Luz: «Oscilliamo tra l’essere considerati dei provocatori e dei cavalieri bianchi in difesa della libertà di espressione». Il problema è: come continuare a fare il giornale di sempre, quello che si batte contro i simboli, una volta che Charlie stesso è diventato un simbolo?

Il primo problema lo spiega bene Luz: come continuare a fare il giornale di sempre, quello che si batte contro i simboli, una volta che Charlie stesso è diventato un simbolo: «Oscilliamo tra l’essere considerati dei provocatori e dei cavalieri bianchi in difesa della libertà di espressione». Nessuno dei due ruoli è mai piaciuto a quei virtuosi dell’(auto)derisione che sono i disegnatori di Charlie Hebdo, ma ecco il secondo problema: tra provocatori e cavalieri bianchi, la lancetta comincia a puntare di nuovo su «provocatori».
L’ultimo numero uscito il 13 gennaio si è venduto in oltre sette milioni di copie in tutto il mondo, e già quel giorno in conferenza stampa Luz – uno dei superstiti e disegnatore della copertina con Maometto – aveva avvisato che il successivo non sarebbe apparso prima del 4 o dell’11 febbraio. Quelle date però sono saltate, non si sa quando uscirà il numero 1.179. Per adesso non ci sono le condizioni, spiega Anne Hommel, la donna che da tempo gestisce l’immagine di Dominique Strauss-Kahn (che oggi va a processo a Lille), ed è stata chiamata da Richard Malka (avvocato di Charlie Hebdo e anche di DSK) a governare l’improvvisa e disgraziata popolarità planetaria. Hommel evoca il dolore e la stanchezza soprattutto psicologica di quel che resta della redazione. L’unica certezza, dice il caporedattore Gérard Biard, è che «Charlie continua». Ma non si sa come.
Luz ha concesso un’intervista video esclusiva al sito americano Vice News, resa pubblica ieri. Immagini subito drammatiche: «Ecco l’appartamento di un disegnatore dopo l’attentato – dice Luz, un bicchiere di vino in mano —: un gran caos e persiane chiuse». La telecamera inquadra le finestre oscurate dell’uomo che dal 7 gennaio è sotto scorta della polizia.
Renald Luzier detto Luz quella mattina si è salvato perché era il suo 43° compleanno, ha fatto tardi alla riunione di redazione «perché sono rimasto a letto con mia moglie, più del previsto. Mi ha preparato caffé, biscotti, le candele». Luz non ce la fa a raccontare senza singhiozzare. Traspare l’emozione per i quattro milioni in piazza a gridare «Je suis Charlie», la domenica dell’11 gennaio, ma anche la paura di farsi strumentalizzare (vedi la presenza dell’Arabia Saudita alla marcia) e il dispiacere per il sostegno mancato. Per esempio quello del New York Times, che non ha pubblicato la nuova vignetta con Maometto, «per paura di ferire qualcuno, o magari per paura dei terroristi». Due giorni fa era stata la moglie di Luz, Camille Emmanuelle, a protestare contro la femminista Cécile Lhuillier, che su Têtu ha accusato Charlie Hebdo di essere sempre stato «omofobo, sessista e islamofobo».
Al festival del fumetto di Angoulême che si è chiuso ieri Charlie Hebdo ha ricevuto un Grand Prix speciale, e a ritirarlo è andato l’amico Jean-Christophe Menu, commosso e indignato: «Charlie non è trasformare in eroi nazionali disegnatori che sputavano sul potere, non è fare suonare le campane di Notre Dame in onore degli anticlericali». Troppa solidarietà è ipocrisia, poca è tradimento. Lo spirito Charlie cerca se stesso.