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 2015  gennaio 30 Venerdì calendario

Il successo da record di “American sniper” di Clint Eastwood divide l’America. È scoppiato un animato dibattito tra destra e sinistra sul conflitto in Iraq e sul protagonista, interpretato da Bradley Cooper: è un eroe o un assassino senza scrupoli?

Insudiciato dalla polvere rossa e soffocante di una guerra che la sua America non avrebbe mai dovuto fare, il Cecchino Americano colpisce il cuore del dilemma antico quanto la prima pietra: quando è giusto, quando è legittimo, quando è eroico uccidere? Il furore politico, giornalistico, ideologico, patriottico che ha fatto di American sniper il successo cinematografico del momento, con 250 milioni di dollari già incassati nel mondo e sei nomination all’Oscar compresi «miglior film» e «miglior protagonista», non riguarda né il film, né la storia autobiografica del superkiller autorizzato Chris Kyle, il commando delle Navy Seals con 160 bersagli umani abbattuti, record storico.
La sua storia di cecchino infallibile eppure umano è la parabola violenta di tutto ciò che l’America ama e aborre di se stessa, il culto quasi religioso delle armi a fuoco, e dunque l’adorazione o il disprezzo per i sacerdoti che meglio lo celebrano come Chris Kyle, un culto incendiato dal panico del nostro tempo, il terrore del terrore. Invano Clint Eastwood che pure aveva costruito da giovane la propria gloria proprio sugli ironici e immaginari mattatoi western da pistolero infallibile di Sergio Leone e poi sulle 45 Magnum dell’Ispettore implacabile, ha cercato di spostare la mira del film dai “killing field” di Falluja in Iraq al “fronte interno”, alla guerra che le famiglie, i coniugi, i figli di questi guerrieri devono combattere, disarmati.
Il versante domestico, la tragedia di chi aspetta a casa, il dramma del reinserimento del superkiller riportato dalla elementare e seducente verità delle guerre – uccidi per non essere ucciso – alla complessità della vita quotidiana nel mondo civile tra bambini, shopping, fatture, tasse, crisi coniugali, molto spesso in preda alla sindrome del reduce, sono piaciuti molto al pubblico femminile. Ma i proiettili che a velocità tripla del suono volano dalla canna della sua carabina hanno spaccato chi l’ha visto, e persino chi non l’ha visto ma naturalmente ne sentenzia, secondo linee molto più dolorose: giusto o sbagliato, quello siamo noi. Quella è la nostra patria, che il tiratore scelto difende e noi dobbiamo difendere. No. Quello è un assassino perfettamente addestrato e pagato, che da lontano, sotto il cappellino da baseball alla rovescia, protetto dal fuoco nemico, gioca al Luna Park della morte, abbattendo bambini come orsacchiotti di cartone.
Era inevitabile, e il vecchio, formidabile Clint che da anni finge di raccontare storie, ma in realtà fruga nel profondo della propria anima e di quella americana, lo sapeva. I pezzi del falso unanimismo attorno alla guerra al Terrore, all’appoggiare «le nostre truppe» senza esitazioni per evitare le lacerazioni del Vietnam, sono andati in frantumi. Michael Moore, cantore dei nobili stereotipi della Sinistra, osa dire che in fondo il cecchino è un “codardo” che spara di nascosto e suo zio fu ucciso sul fronte europeo proprio da un “Nazi sniper”. Seth Rogen, il protagonista del film della Sony hackerato forse dai Nord Coreani, The Interview perde istantaneamente il proprio status di eroe del libero cinema in libero stato, twittando che il film gli ha ricordato la scenda di Bastardi senza gloria di Tarantino, dove un tiratore tedesco abbatte uno per uno molti GI americani.
La semplice allusione, in realtà deliberata, ai cecchini nazisti, quando meno rozzamente si sarebbe potuto ricordare il terribile duello mortale tra le rovine di Stalingrado fra un tiratore scelto tedesco e un russo, ha scatenato non soltanto la reazione isterica dei social media, che hanno seppellito di improperi Moore, Rogen e l’immancabile Noam Chomsky che si sente «coperto dalla stessa vergogna che quel killer incarna». Kyle, il Navy Seals, era in Iraq per combattere «un indicibile, indescrivibile orrore», scriveva lui stesso nelle memorie, non per fare il tiro a segno e questa è la difesa di chi applaude al suo successo di killer in uniforme. «È l’anima stessa dell’America a essere di nuovo tormentata e contorta come fu negli anni del Vietnam» ha commentato lo storico Andrew Hartman e i critici del film hanno offeso «il nostro desiderio di proteggerla, di considerarci sempre nel giusto, anche quando sbagliamo».
Dal 2001, da quel giorno sulle rovine ancora incandescenti del World Trade Center sulle quali George W. Bush annunciò la Guerra al Terrore «fino alle porte dell’inferno», la torsione di quell’American Soul, dell’anima nazionale, continua. Ed è poi lo stesso tormento che affiora anche nell’occhio di falco Kyle, che Bradley Cooper dovette interpretare ingurgitando 9 mila calorie al giorno per ingrassare di 15 chili e somigliare al suo fisico massiccio, nello «Sniper» che dopo tre viaggi alle porte dell’inferno e oltre dice basta, nel dubbio che comincia a pungere anche i suoi camerati. Fino a quella conclusione tragica che da sola rappresenta, nella perfezione crudele dell’ex cecchino ucciso in un poligono di tiro del Texas da un altro reduce dal fronte e che insinua l’ombra di una morale altrettanto antica, la guerra che consuma chi la fa.
Neppure i filmoni sul Vietnam, Il cacciatore, Apocalypse now, Full metal jacket, Platoon, avevano mai stretto la «American Soul» come questo, che pure non ha, neppure cinematograficamente, la magniloquenza retorica dei kolossal di Kubrick, di Stone o di Coppola. Ma non soltanto perché quelli arrivarono a guerra finita, mentre questa, che i «cecchini» ancor più vili della blasfema jihad assassina continuano, è un guerra appena iniziata. In questo docufilm biografico, la realtà che Eastwood offre è che nessuno può salvare il soldato Kyle dopo avere raggiunto il proprio Cuore di Tenebra. Quando l’addestramento, le circostanze, la vertigine della propria suprema abilità di tiratore sfondano la barriera dell’istinto naturale che ci impedisce di uccidere – superiore anche all’istinto di conservazione, come spiega ai cadetti americani lo studio ufficiale e stupefacente On killing del Colonnello Dave Grossman – e s’impara ad abbattere altri esseri umani, il viaggio di ritorno diventa spesso impossibile.
Destra e Sinistra americane, barricate nei loro rassicuranti stereotipi da social media, da facoltà, da ristorante, si sono azzuffate come chirurghi ciechi attorno alla piaga delle «Guerre di Bush», delle strategie anti Terrore, del militarismo-patriottismo, del «My Country right or wrong» e del culto delle armi. Ma la storia dell’irrecuperabile soldato Kyle è la storia di un uomo e di chi gli vuole bene risucchiato nel vortice della sua vita. Dunque irrisolvibile come tutte le controversie che si agitano nell’anima non di una nazione, ma di una persona. E che, come tutte le controversie, vendono bene al botteghino.