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 2015  gennaio 29 Giovedì calendario

Fu Francesco Furchì a uccidere Alberto Musy il 21 marzo 2012, lo dicono i giudici che lo hanno condannato all’ergastolo. Lui grida la sua innocenza. La moglie di Musy: «Per me, per tutti noi, è una liberazione. Mi aspettavo un verdetto del genere, ora possiamo tornare a vivere»

Scuote la testa, Francesco Furchì. Mormora: «È un’ingiustizia, sono innocente, sono innocente». Sguardo basso dopo la lettura della sentenza che lo condanna all’ergastolo, colpevole di avere ucciso l’avvocato torinese Alberto Musy, sposato e padre di quattro bambine. Ma un istante prima, gli occhi si erano incrociati con quelli del presidente dell’Assise, Pietro Cappello, intento a leggere le due pagine in cui, oltre alla condanna, vengono decisi i risarcimenti per la vedova, le figlie, le parti civili. Poco più di un milione e 200 mila euro. La sorella di Furchì, Caterina, fugge dall’aula. Sconvolta.
L’agguato mortale
Sono passati quasi tre anni dall’agguato mortale del 21 marzo 2012. Alle 8,01, un uomo con il volto coperto da un casco era nel cortile di un palazzo d’epoca, nel centro di Torino, spalle all’ingresso. L’avvocato Alberto Musy apre il portone, lo vede e ha solo il tempo di chiedergli: «Cerca qualcuno?». L’uomo con il casco, che indossa un trench scuro, in mano una scatola di cartone, si volta e spara cinque volte con un revolver 38 special. Quattro colpi vanno a segno, il quinto lo raggiunge alla testa. Musy ha ancora il tempo di chiedere aiuto, di commentare con un vicino l’accaduto: «Che mondo... mi hanno sparato».
Lunga agonia 
Riesce a parlare con la moglie Angelica, poi perde conoscenza ed entra in coma. Dopo diciannove mesi di agonia, muore in una clinica senza avere mai più ripreso conoscenza. Gli investigatori faticano a trovare un indizio. La Torino bene, cara a Fruttero&Lucentini, non collabora. Tanto che l’avvocato di parte civile, Giampaolo Zancan, definisce il clima come «omertoso».
I veleni della Torino-bene
Mesi di intercettazioni fanno emergere miserie e veleni, proprio nell’ambiente più vicino alla vittima, quello dei baroni universitari e degli aspiranti tali. Poi un politico, sollecitato più volte, inizia a descrivere i retroscena della campagna elettorale 2011 e spunta fuori la strana figura di Furchì, candidato nella lista centrista dell’avvocato. Non solo: un professore, Pier Luigi Monateri, parlando con un’amica dice di riconoscere nel killer con il casco proprio Furchì: non ne fa parola con altri, ma al processo sarà uno degli elementi a favore dell’accusa. 
Zero alibi, molti indizi
Si scopre che Furchì non ha alibi per la mattina del 21 marzo; anzi, per i giudici ha mentito su orari e movimenti; che ha spento il cellulare per quasi tutta la giornata, salvo una telefonata alle 7,25 agganciata da una cella non distante dal luogo del delitto. La polizia ricostruisce i rapporti con Musy. Il movente si consolida, coinvolge faccendieri e broker di dubbia affidabilità. Furchì zoppica leggermente, proprio come l’uomo con il casco. Le perizie del pm lo confermano, quelle della difesa no. L’arma non è stata trovata. La difesa andrà in appello. L’avvocato Giancarlo Pittelli: «Sentenza scandalosa, ci batteremo sino all’ultimo per cancellarla».

Massimo Numa
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«Sì, è finita. So che ci sarà un processo d’appello, passerà ancora molto tempo. La giustizia ha tempi lunghi, una parola definitiva arriverà soltanto più avanti. Ma, per me, per tutti noi, è una liberazione. Mi aspettavo un verdetto del genere, ora possiamo tornare a vivere».
Ha la voce tenue, Angelica Corporandi d’Auvare, i modi gentili che non l’hanno mai abbandonata, anche al termine di udienze lunghe e strazianti in questo processo cominciato con un’accusa di tentato omicidio e poi ripartito da zero o quasi quando ormai era quasi al termine, con un altro capo d’imputazione, perché nel frattempo Alberto Musy era morto.
Lei ha seguito tutte le udienze tranne una, quella dedicata alle arringhe degli avvocati difensori. Perché?
«Non volevo sentire. Non mi interessava».
Che cosa prova per Francesco Furchì?
«Nessun rancore, glielo assicuro. Non lo conosco nemmeno, non l’avevo mai visto né sentito nominare fino al giorno in cui l’hanno arrestato. Per me l’importante era che si stabilisse chiaramente quel che era accaduto. Oggi è successo e adesso possiamo tornare a vivere».
Ha mai temuto di restare senza risposte, senza sapere chi avesse sparato a suo marito?
«Per mesi, dopo l’agguato, ci siamo logorati, abbiamo cercato ovunque, non sapevamo proprio dove dirigere lo sguardo, abbiamo considerato tutte le possibili ipotesi senza capire chi potesse avercela con Alberto. Forse, all’inizio, sono stata pure d’intralcio alle indagini: non avevo idea di chi potesse essere stato, nemmeno sapevo chi fosse Furchì».
Suo marito credeva in Dio, anche lei è credente: perdono, oggi, è una parola troppo forte, troppo prematura?
«No, è quella giusta. Lo perdono, anche se è difficile perdonare chi non chiede scusa. Povero figlio, ora dovrà compiere il suo percorso».
Lei, invece, che cosa farà adesso?
«Vado dalle mie bambine. Sono a casa che aspettano di sapere come è andata. Devo andare a dirglielo».
A loro ha raccontato tutto?
«Alle più grandi sì. La piccola ha solo quattro anni, va all’asilo. Più che per me, questa sentenza è importante per loro, per le mie quattro figlie. Mi solleva poter tornare a casa adesso e raccontare loro che c’è un verdetto, una parola chiara. Altrimenti, che cosa avrei detto? Con quali parole avrei potuto spiegare che la morte del loro papà non aveva un responsabile?».
Non è stato un processo facile. Ci sono state persone che hanno sporcato la memoria di suo marito. Eppure lei è sempre stata presente.
«L’avevo promesso ad Alberto quando era in stato vegetativo e così ho fatto. Non è stato facile, ma ringrazio tutti: la squadra mobile della polizia che ha svolto le indagini, i magistrati, i nostri avvocati».
Stringe a sé Gian Paolo e Valentina Zancan, gli avvocati che l’hanno accompagnata in questa tempesta. E che rivendicano «il ruolo avuto da questa famiglia, che ha dimostrato di avere fiducia nell’amministrazione della giustizia, credendo che avrebbe saputo dare una risposta a una vicenda terribile come questa. Non si sono mai tirati indietro, anche nei momenti di sconforto, anche quando si trovavano di fronte a dichiarazioni omertose che hanno rallentato l’accertamento della verità».
Signora Musy, sono stati anni di grande sofferenza per lei. C’è qualcosa che le ha dato conforto?
«È stato essenziale sapere che intorno a noi c’erano tante persone, c’era una città che non è stata indifferente. A cominciare dalle istituzioni, che sono sempre rimaste al nostro fianco. Per me è stato importante, per le mie bambine anche. Ora scusatemi, devo andare da loro».
Andrea Rossi