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 2015  gennaio 29 Giovedì calendario

«Ho ucciso uno con la pistola. Adesso voglio andare a scuola, non ci sono mai stato». Parlano i bambini soldato rilasciati dalle milizie del Sud Sudan. Si erano uniti ai Cobra per disperazione, molti sono stati costretti ad assistere a scene truci e più d’uno è arrivato a sporcarsi le mani di sangue

 La sua voce è bassa ma intensa: «Avevo dieci anni quando degli uomini armati mi hanno prelevato da scuola e obbligato a seguirli, ho combattuto con loro per quattro lunghi anni. Come mi sento? Non ho più paura, non voglio più fare il soldato, voglio andare a scuola e diventare medico».
Tace l’orrore e dà spazio al sogno Miron, nome di fantasia di uno dei 280 bambini che hanno deposto le armi, rilasciati dai ribelli del Cobra, fazione delle milizie dell’«Esercito democratico del Sud Sudan» che ha firmato un accordo di pace con il governo. E ora è festa grande a Gumuruk, il villaggio nella regione petrolifera di Jonglei, tra le più colpite dalla sanguinosa guerra civile che sta dilaniando il più giovane Stato del mondo, con migliaia di morti e due milioni di sfollati in due anni di scontri tra governativi e ribelli. È qui che i piccoli soldati sono stati liberati martedì con la mediazione dell’Unicef. La festa continua sabato quando altre centinaia di baby soldati deporranno l’uniforme. E proseguirà nelle prossime settimane: nel giro di un mese a tremila piccoli combattenti verrà restituito quel che resta dell’infanzia.
Molti di loro – d’età per lo più compresa tra gli 11 e i 17 anni – si sono uniti ai Cobra per disperazione, per difendere comunità e familiari dalle pesanti discriminazioni perpetrate dal governo di Juba verso il loro gruppo etnico, i Murle. Molti sono stati costretti ad assistere a scene truci che almeno ai bambini dovrebbero essere risparmiate. E qualcuno è arrivato sporcarsi le mani di sangue. «Hanno ucciso mia sorella, mio zio e altri familiari – racconta un tredicenne appena tornato in libertà – Così mi sono unito ai Cobra e ho ucciso uno con la pistola. Adesso voglio andare a scuola, non ci sono mai stato». «Ora so cosa significa fare il soldato, è una cosa sporca», dice un altro.
«La maggior parte dei bambini rilasciati ci ha parlato delle torture e delle botte subite – riferisce al Corriere John Budd, in forza all’Unicef nel Sud Sudan –. Alcuni hanno assistito all’uccisione dei propri familiari. Molti hanno detto di essere stati coinvolti nei combattimenti».
Per riuscire a far pace con l’inferno che si portano dentro ci vorrà tempo. A Gumuruk l’Unicef ha allestito un centro di primo intervento per garantire loro cibo, acqua, vestiti, medicine e il supporto psicologico di cui hanno bisogno per iniziare a immaginarsi un futuro. Nel frattempo sono state avviate ricerche per capire se i loro familiari sono ancora vivi, oltre a programmi di inserimento scolastico.
Ma migliaia di bambini restano ancora impegnati al fronte: oltre 12 mila, per lo più maschi secondo l’agenzia dell’Onu, sono stati reclutati soltanto lo scorso anno dalle forze governative del presidente Salva Kiir, di etnia dinka, e dai miliziani del suo ex vice, Riek Machar, di etnia nuer (maggioritaria), destituito nel 2013 con l’accusa di aver tentato il colpo di Stato, mentre lui si considera vittima di un’epurazione per aver annunciato la sua candidatura alle presidenziali.
Il Paese africano è uno dei sette Stati interessati da «Children, Not Soldiers», la campagna internazionale sponsorizzata da 40 Paesi, tra cui l’Italia, con un obiettivo ambizioso: porre fine al reclutamento e all’impiego dei bambini nei conflitti da parte delle forze armate governative entro la fine dell’anno prossimo. Questo rilascio di massa di baby soldato in Sud Sudan dà qualche speranza. Anche al sogno di Miron.