Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  gennaio 29 Giovedì calendario

Erri De Luca, uno scrittore in tribunale insieme alle sue parole Il poeta spaesato, il biblista autodidatta, il traduttore dall’ebraico. Oppure l’ideologo dell’eversione no Tav, l’istigatore a delinquere a colpi di verbi, aggettivi e sostantivi? «Difendo il mio no alla Tav. Sabotare è verbo nobile»

Timidissimo, magrissimo. «Ho una protesi, suonerà al metal detector?» domanda Erri De Luca alla guardia che sorride invece di rispondere. Uno scrittore in tribunale insieme alle sue parole. Lui e loro alla sbarra, sul banco degli imputati che è un lucido legno di ciliegio. Enrico De Luca detto Erri di anni sessantaquattro, ritto in piedi, mani giunte, un maglione grigio, il reticolo ancora più pronunciato di rughe sul volto, forse una smorfia, forse incredulità. Il poeta spaesato, il biblista autodidatta, il traduttore dall’ebraico. Oppure l’ideologo dell’eversione no Tav, l’istigatore a delinquere a colpi di verbi, aggettivi e sostantivi? Perché a volte piovono pietre, insieme alle parole.
Si è beccato una denuncia per aver detto, in un’intervista del settembre 2013, «la Tav va sabotata». Non ha ritrattato, non ha scelto una seconda edizione per le sue idee, così l’azienda che scava (o vuole scavare) il tunnel dentro le montagne della Valsusa l’ha portato qui, davanti al giudice. Nell’aula 52 c’è un pubblico di lettori, a occhio non pericolosi attivisti dei centri sociali, in mano hanno pagine e non cesoie, copertine e non pietre. Mostrano cartelli, sopra c’è scritto “Je suis Errì”, magari un po’ troppo: il giudice li fa levare. Fuori dal tribunale, altri come loro stanno leggendo da cima a fondo, in coro, con megafoni e microfoni, “La parola contraria”, il pamphlet in libreria da un paio di settimane che racconta il perché e il percome di questa vicenda. Viene regalato ai passanti, non pochi lo lasciano lì.
«Non ho istigato nessuno, anzi sono stato istigato a difendere questa gente», sussurra De Luca prima di entrare in aula. «I fatti di Parigi non sono accostabili alla mia piccola, balorda vicenda giudiziaria, là ci sono stati i morti. Anche se l’idea in fondo è quella. E se l’opinione è un reato, continuerò a ripeterlo. Io qui sono solo, ma fuori dal tribunale isolata è l’accusa, imputata è l’accusa. Diciamo che io sono sotto processo ma l’aula è sotto osservazione».
Come camminare sull’orlo del precipizio, l’appassionato alpinista De Luca lo sa bene. A volte opinione fa rima con istigazione, ed è questo che rimarca il procuratore Andrea Beconi: «Non processiamo la libertà di pensiero, ci mancherebbe, tuttavia questo sacrosanto diritto non è un valore assoluto. Cosa significa sabotaggio? Per noi vuol dire danneggiamento. Le parole dell’imputato possono avere invitato gli incerti al sabotaggio violento. Nel nostro ordinamento l’istigazione a delinquere esiste e dobbiamo farci i conti».
Eccolo, il punto. Sta dentro il vocabolario come il gheriglio nella noce. «Sabotare è un verbo nobile, lo usava anche Gandhi», dice invece lo scrittore.
«Non significa solo danneggiare materialmente. Nella mia accezione anche uno sciopero è sabotaggio, anche l’ostruzionismo parlamentare. Qui non di discute la libertà di parola, ma la libertà di parola contraria. Che io considero un dovere, non solo un diritto». Però un professionista delle lettere non può ignorare la loro forza contagiosa, prodigiosa e a volte diabolica, una forza che sa anche plagiare, nel caso. «E qui non siamo a trattare questioni di semiologia», incalza infatti l’avvocato Alberto Mittone che rappresenta la parte civile, cioè la ditta Ltf, costruttrice e denunciante: «Si possono commettere reati anche con le labbra, e le parole dell’imputato avevano un peso concreto». L’avvocato vorrebbe allegare agli atti una vecchia dichiarazione di De Luca, che presentando il libro di una brigatista rossa definì la lotta armata “non terrorismo ma guerra civile”. Un’enormità, che tuttavia il giudice Immacolata Iadeluca lascia fuori dal processo perché qui si parla d’altro. «Nessuna circostanza della mia vita può servire a farmi passare da mandante o da mandato», scrive De Luca nel pamphlet. Vero, ma fino a un certo punto. Esistono menti fragili, condizionabilissime, ed è per questo che lo scrittore rischia davvero la condanna: «In tal caso, non sono sicuro che eviterei il carcere da uno a cinque anni. Comunque possono fare a meno di applicarmi la condizionale, perché ripeterò il reato».
Il suo pubblico fa il tifo, grida grazie, una donna si avvicina e lo accarezza. L’udienza viene rinviata al 16 marzo e tra i testimoni della procura non ci sarà Mario Virano, presidente dell’Osservatorio sulla Torino-Lione: accolta la richiesta della difesa, uno a zero per De Luca ma la partita è ancora lunga. «Per lo meno si dibatterà solo sulle mie parole e non sulla Tav, non dovrebbe dunque diventare un processo politico». L’avvocato dello scrittore, Gianluca Vitale, dopo le richieste della procura aveva sbottato: «Non si processano le opinioni, a questo punto inventiamo un processo sulla colpa d’autore!» Non ci sarà bisogno di arrivare a tanto, ma anche così rimane un bel garbuglio.
«Vorrei conoscere chi avrei istigato, i nomi e i cognomi intendo, ma si dà il caso che non mi sia stato presentato nessuno. Io, al massimo, posso istigare alla lettura e alla scrittura. E comunque la Tav si sabota da sé, perché non ci sono i soldi per farla». La gente, fuori, applaude e continua a leggere il libretto a una voce sola, con una cadenza un po’ da corteo, un po’ da comizio. Il poeta si congeda con una citazione ebraica dal libro dei Profeti: “Ptàkh pìkha le illèn”, che vuol dire “apri la tua bocca per il muto”. Suggestivo. Ma nelle battaglie campali di Chiomonte non si giocava mica a guardie e ladri, non si faceva letteratura: si menava di brutto. E un giudice potrebbe anche dire che è meglio restare muti, se poi una parola fa grandinare i sassi.