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 2015  gennaio 29 Giovedì calendario

In Siria alleati e avversari si scambiano i ruoli. I nemici, dichiarati o di fatto, possono essere amici secondo lo scontro in cui sono impegnati. È la guerra dei tiri incrociati. Un mosaico di contraddizioni che blocca l’intesa con l’Iran e rimette in pista Assad

La Siria è il teatro di vari conflitti in cui alleati e avversari si scambiano i ruoli. I nemici, dichiarati o di fatto, possono essere amici secondo lo scontro in cui sono impegnati. È la guerra dei tiri incrociati. Il missile che ieri ha ucciso due soldati israeliani e ne ha feriti sette, nell’area nota come la Fattoria Shebaa (o in Israele come Monte Dov), è stato sparato dagli hezbollah libanesi. I quali sostengono al tempo stesso in quanto sciiti il regime di Damasco e quindi combattono i jihadisti sunniti dello Stato Islamico, principale forza ribelle. Ma quest’ultimo, lo Stato Islamico, è anche il bersaglio degli attacchi aerei della coalizione guidata dagli americani. Americani e hezbollah hanno dunque un obiettivo comune. Lo stesso vale per i sauditi impegnati nella coalizione americana contro lo Stato Islamico. Questo non toglie che i missili degli hezbollah piovano pure sugli israeliani, strettamente legati agli Stati Uniti. E che l’Arabia Saudita, potenza sunnita, sia la principale avversaria araba dell’Iran sciita, di cui gli hezbollah sono stretti alleati.
Questo è soltanto un aspetto del mosaico di conflitti di cui bisogna tracciare i contorni e precisare le cause per tentare di capire quel che accade in Medio Oriente. L’uccisione dei due soldati, nell’area della fattoria Shebaa, in prossimità delle alture del Golan, ricorda quel che accadde nel 2006. Allora un missile colpì una pattuglia di confine, tre soldati furono uccisi e due presi prigionieri. Nel tentativo di liberarli altri cinque israeliani persero la vita. Così si accese una guerra durata un mese. Il bilancio finale fu di mille morti libanesi e centosessanta israeliani. C’è il rischio che quel conflitto riprenda?
Israele ha reagito con tiri di mortaio che hanno ucciso un militare spagnolo dell’Onu (a qualche chilometro c’è il contingente italiano), ma soprattutto il primo ministro Benjamin Netanyahu ha annunciato una risposta più dura. Ha detto che Israele «sa rispondere con la forza» a coloro che lo sfidano uccidendo i suoi cittadini. Il lancio micidiale del missile delle milizie sciite libanesi è avvenuto nove giorni dopo l’incursione aerea, attribuita agli israeliani, in territorio siriano che ha fatto cinque morti. Tra i quali il figlio di un capo hezbollah. Oltre ai libanesi fu ucciso un generale iraniano. Israele si aspettava una risposta. Un alto ufficiale di Teheran aveva avvertito che «il tuono si sarebbe fatto sentire» molto presto.
Il conflitto tra israeliani e Hezbollah è un capitolo a parte, ma risente della situazione generale in Medio Oriente. E anche dei riflessi che essa ha nelle capitali vicine e lontane. Anzitutto la guerra civile in Siria, che in quattro anni ha fatto più di duecentomila morti, negli ultimi mesi ha subito un cambiamento radicale e drammatico. Lo Stato Islamico (o Califfato), inesistente all’inizio, occupa ormai circa la metà del paese, mentre le forze ribelli moderate e “laiche”, sulle quali contavano gli americani per mettere fine alla dittatura di Bashar el Assad, sono state ridimensionate. Non sono più in grado di minacciare il regime di Damasco.
La posizione di Assad si è rafforzata. Al punto che quando il segretario di Stato John Kerry lo invita a cambiare politica, non gli intima più come un tempo di abbandonare il potere. Non sarebbe realistico. Assad non può essere un alleato degli Stati Uniti, poiché resta un raìs infrequentabile per le migliaia di vittime che ha fatto il suo regime, forse anche usando i gas tossici. Ma di fatto l’aviazione americana e quelle degli alleati occidentali e arabi scaricano le loro bombe sulle zone occupate dallo Stato Islamico esattamente come l’aviazione di Assad. I bersagli sono gli stessi. Entrambi, Obama (e i suoi alleati) e Assad hanno un nemico comune, pur essendo loro stessi nemici, ma senza combattersi direttamente. Ed è ormai opinione comune che se le truppe governative di Damasco non presidiassero una larga parte del paese, i jihadisti del califfato avrebbero un successo inarrestabile e «catastrofico». Non si vince una guerra che implica il controllo del territorio senza una fanteria, con la sola aviazione. E le milizie che gli americani preparano in Iraq e in Siria saranno operative soltanto tra qualche mese. Per ora i soli soldati validi che si battono a terra sono i curdi e gli sciiti, quest’ultimi spesso inquadrati e armati dall’Iran.
La guerra dei tiri incrociati costringe gli americani a puntare su un fronte comune per combattere lo Stato Islamico, che rappresenta la minaccia maggiore in Medio Oriente. Un fronte politico che includa la Russia e l’Iran, principali alleati di Assad, e la Turchia e l’Arabia Saudita che sono i suoi principali avversari. È indicativo che le Nazioni Unite tentino di creare le condizioni per una trattativa tra le forze, governative e ribelli, impegnate nella battaglia di Aleppo. Sarebbe un inizio di dialogo da estendere poi a tutto il paese. Dal tavolo dell’ipotetico negoziato dovrebbero essere esclusi soltanto i jihadisti del Califfato. I tagliatori di teste non possono diventare interlocutori. Tutti gli altri gruppi ribelli, quelli moderati appoggiati dagli americani e quelli islamici, dovrebbero avere diritto a una seggiola. Sarebbe come avviare un dialogo con Bashar el Assad.
Il recupero dell’Iran provoca molte reticenze tra gli alleati dell’America. E questo pesa sul conflitto che potrebbe riesplodere tra israeliani e Hezbollah. Benjamin Netanyahu è in aperto contrasto con Barack Obama. Ai primi di marzo parlerà al Congresso di Washington, invitato dalla maggioranza repubblicana, senza mettere piede alla Casa Bianca e al Dipartimento di Stato. Sempre in marzo si voterà in Israele e per il primo ministro la visita a Washington, senza neppure una stretta di mano con il presidente e il segretario di Stato, farà parte della sua campagna elettorale. Obama non è popolare a Gerusalemme e a Tel Aviv, ma in questa stagione non è apprezzato in particolare il veto che ha posto alle nuove sanzioni all’Iran proposte dai repubblicani. Poiché sempre in primavera dovrebbe aprirsi la nuova conferenza sul nucleare iraniano, Obama pensa che non sia opportuno cominciare dando uno schiaffo agli interlocutori con cui si spera di concludere un accordo. Netanyahu, per il quale la minaccia nucleare iraniana è un argomento chiave nella campagna elettorale, potrà esortare il Congresso americano a raccogliere i due terzi dei voti necessari per annullare il veto presidenziale. Se ci riuscisse apparirebbe come il primo ministro che ha sconfitto il presidente americano in patria. E ha contribuito a sventare un accordo sul nucleare iraniano, sul quale spera Obama, e che ai suoi occhi non sarebbe invece sufficiente per evitare nel futuro un arma atomica in mano agli ayatollah.
La guerra dei tiri incrociati, che spesso appare una mischia indecifrabile, ha riflessi nelle grandi capitali. Obama cerca di raggiungere con l’Iran il più difficile accordo degli ultimi decenni, e Netanyahu invece lo teme. Sul terreno, nella mischia mediorientale, un conflitto con gli hezbollah, importante appendice della Teheran degli ayatollah, toglierebbe valore alle carte dei diplomatici. L’Arabia Saudita non è lontana dalle posizioni di Netanyahu. Essa teme, come Israele, una riammissione in società dell’Iran. Nella tenzone tra sciiti e sunniti che pesa sulla guerra in corso in Iraq e in Siria, i primi, gli sciiti, acquisterebbero peso. Non a caso Barack Obama ha dato tanta solennità alla sua visita al nuovo re d’Arabia. Doveva rassicurarlo.