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 2015  gennaio 16 Venerdì calendario

Lo scontro nella Procura di Milano è diventata ormai una vicenda tragicomica. Salta il trasferimento di Robledo a Venezia fino alla pensione del rivale Bruti Liberati, le norme lo vietano. Una figuraccia per le toghe

Telefonateci quando avete finito: lo diciamo a Edmondo Bruti Liberati (inteso come capo della procura di Milano) e al procuratore aggiunto Alfredo Robledo, protagonisti di una querelle che ha definitivamente gettato nel ridicolo non tanto loro, ma la capacità della magistratura superiore di risolvere discretamente i propri conflitti al proprio interno, dunque di farlo senza che volino stracci. A uscirne con le ossa rotte è soprattutto il Consiglio superiore della magistratura, incapace di essere – com’era – mero silenziatore, camera di compensazione e assimilazione, archivificio preoccupato solo dai problemi di immagine della magistratura tutta. Difficile negare che il bilancio sia devastante.
La notizia in due parole: la soluzione di applicare Robledo alla procura di Venezia – per un annetto al massimo, il tempo che il suo «nemico» Bruti Liberati andasse in pensione, dopodiché sarebbe potuto rientrare a Milano – è già tramontata, non si può fare: e questo perché mancano «i presupposti normativi» come ha dovuto rilevare la settima commissione del Consiglio superiore della magistratura, cioè l’organismo che avrebbe dovuto avviare l’iter necessario. A Venezia, di procuratori, più di tanto non ne servono, questa la sostanza: che tecnicamente si traduce nel fatto che il trasferimento temporaneo di un magistrato che proviene da un altro distretto giudiziario si può fare solo se questo distretto abbia una scopertura superiore alla media nazionale. A Venezia c’è un sette per cento di posti vacanti con la media nazionale che invece è il dieci. Fine. Domanda bocciata e si ricomincia da capo.
Ma si ricomincia che cosa? A riannodarsi è una querelle surreale, tartufesca, anzi pilatesca, fatta apposta per evidenziare le contraddizioni e il grado di indecisione che la magistratura adotta nel cercar di gestire se stessa senza colpo ferire. L’operazione doveva essere un primo capolavoro diplomatico di Giovanni Legnini, avvocato piddino e vicepresidente del Csm da ottobre scorso: la sua idea era quella di lasciare Bruti Liberati a guidare l’ufficio (compreso il nevralgico dipartimento reati contro la pubblica amministrazione, ex pool Mani pulite, quello che tempo fa guidava Robledo) senza l’ormai ingombrantissima presenza appunto di Robledo, toga che ha ripetutamente e rumorosamente denunciato il proprio capo. Trasferirlo direttamente, Robledo? Impossibile, suonerebbe come una punizione che il procuratore aggiunto non accetterebbe mai: lui si picca di aver posto problemi oggettivi che attengono all’organizzazione delle procure e al concerto dei poteri, questioni delicate che toccano la fatidica autonomia del magistrato all’interno di una giurisdizione: non di aver semplicemente litigato con Bruti Liberati. E in questo, risultati alla mano, Robledo non ha davvero tutti i torti: la discrezionalità dei procuratori capo come dei singoli magistrati – a Milano come nel resto del Paese – è in effetti un terno al lotto, ciascuno fa un po’ quel che vuole, non è solo una questione di legge violata o meno. Senza contare che un trasferimento durerebbe almeno tre anni, e cioè sino alla fine della carriera di Robledo. No, non si può fare neanche questo.
E ora magari dovremmo riassumere precisamente quello di cui stiamo parlando, ossia tutta l’incredibile diatriba che il caso Robledo-Bruti Liberati ha sollevato davanti al Csm e al Paese: ma sarebbe da pazzi.
Che la querelle sia divenuta inestricabile, del resto, è forse il miglior risultato che la magistratura potesse ottenere, interessata com’è a lasciare inintelliggibili gli scenari che il caso ha evidenziato e a lasciare inesplorabile, cioè, la galassia in cui è andata a nascondersi un potere che vive ormai in altri mondi, con altre regole. Il Csm ha archiviato gli esposti del procuratore Robledo ma non ha stabilito che dicessero il falso: i bizantinismi e le criticità sono restate sullo sfondo di mere lotte di potere interne alle correnti della magistratura. Ordunque: indagati iscritti a registro secondo discrezione, fascicoli dimenticati, assegnati a dipartimenti a caso, affrontati diversamente a seconda che ci siano delle elezioni politiche o delle trattative d’affari, riesumati perché è uscito un articolo di giornale: alla fine non sappiamo se il vero problema è che l’aggiunto Robledo abbia raccontato la verità oppure no.