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 2015  gennaio 16 Venerdì calendario

«Onore alla Tigre Arkan». Quattro parole sul megastriscione apparso allo stadio Olimpico, nella curva della Lazio, il 30 gennaio del 2000. Era la Lazio di Dejan Stankovic e di Sinisa Mihailovic, amici del leader ultranazionalista serbo, incriminato dall’Onu per crimini contro l’Umanità. Quindici anni dopo la morte del boia cosa rimane?

Onore alla Tigre Arkan”. Quattro parole, sufficienti a scatenare un vespaio di reazioni. Parole spalmate sul megastriscione apparso allo stadio Olimpico, nella curva della Lazio, il 30 gennaio del 2000. Era la Lazio di Dejan Stankovic e di Sinisa Mihailovic, amici del leader ultranazionalista serbo, incriminato dall’Onu per crimini contro l’Umanità dopo le violenze commesse nella guerra dei Balcani ai danni della popolazione civile, in particolare i musulmani di Bosnia. Due settimane prima, la mattina del 15 gennaio di quindici anni fa, Zeljko Raznatovic, meglio conosciuto come Arkan, all’epoca 48enne, era stato freddato da un poliziotto serbo di appena 23 anni. Dobrosav Gavric, questo il suo nome, aveva sparato dei colpi contro Arkan e le sue guardie del corpo mentre sorseggiavano un aperitivo nel centralissimo hotel Intercontinental di Belgrado. Le pallottole esplose da Gavric (latitante fino al 2011 quando, di rientro dal Sudafrica, è stato arrestato per traffico di droga) hanno reso vani anni di indagini dell’Icty (il Tribunale Penale dell’Aja per l’ex Jugoslavia) e perpetuato il mito del paramilitare ortodosso.
Quel giorno all’Olimpico la Lazio battè il Bari 3-1, ma i commenti se li prese tutti lo striscione. Per quel gesto la Lazio subì un’ammenda di 30 milioni delle vecchie lire, solletico per le ricche casse della società del presidente Cragnotti; più grave l’onta per l’attestato di vicinanza nei confronti del macellaio dei Balcani. Il più amareggiato quel giorno fu il centravanti dei biancocelesti, il croato Alen Boksic; pochi anni prima Arkan e le sue “tigri” avevano commesso atrocità spaventose a Vukovar, città croata della Slavonia assediata e distrutta dai serbi. Ironia della sorte, Mihailovic – padre serbo e madre croata – a Vukovar c’è nato. Eppure l’attuale allenatore della Sampdoria non ha mai smentito la sua amicizia con Raznatovic, dai tempi in cui era il leader della Stella Rossa e il paramilitare capo ultras al “Marakana” di Belgrado.
Dieci anni di carriera, tra rapine, omicidi ed evasioni spettacolari, per poi dedicarsi alle faccende ex Jugoslave. Giovanissimo Raznatovic – origini slovene – entra ed esce dalle prigioni di mezza Europa, Italia compresa, dove stringe amicizie con personaggi della malavita locale. Raznatovic è stato ospitato in diverse carceri italiane, compreso San Vittore, dove è stato rinchiuso per una serie di rapine sanguinose nel milanese e protagonista di una spettacolare rivolta. Non si contano le sue apparizioni sugli spalti degli stadi di serie A, specie dove i suoi connazionali erano protagonisti.
Come la carriera di un artista, pure Arkan “ha messo la testa a posto” e cambiato vita. Scampato alla giustizia di una raffica di Paesi europei, Raznatovic verso la metà degli Anni 80 torna nella sua amata Jugoslavia, unita, ma senza Tito e con Milosevic già potente. Presto si specializza in eliminazioni di immigrati indesiderati e cittadini slavi “impuri”. Quando è scoppiata la guerra, Zeljko si è fatto trovare pronto. Nel frattempo aveva messo in piedi un esercito di criminali e galeotti, addestrato e disposto a tutto: le sue Tigri, le Tigri di Arkan. Un battaglione privato organizzato da esercito parallelo. Duro addestramento, nel classico stile marines. Le qualità principali per diventare una tigre: non avere scrupoli, essere violento, godere alla vista del sangue. Il perfetto battaglione, comportamento marziale, mimetica in ordine, capelli rasati, barba fatta ogni giorno e igiene personale mantenuta quotidianamente; fobìa pura.
Gli alter ego dei cetnici, i guerrieri rozzi, barbuti, malvestiti, sporchi e puzzolenti del passato. Uguali solo nella spietatezza. “Faccia d’angelo”, un altro dei soprannomi, reclutava nel retrobottega i tifosi-killer, da semplici ultras a guerriglieri, da scontri fuori degli stadi legati ai colori della squadra del cuore a omicidi nel quadro della pulizia etnica per allargare i confini della Grande Serbia.
In appena cinque anni, dal 1990 al 1995, Zeljko Raznatovic ha collezionato reati degni di un gerarca nazista. Le sue armate si sono rese responsabili di stragi e violenze inaudite. A partire dal dicembre del 1990 a Knin, città croata al tempo abitata dalla maggioranza serba. Detto dell’assedio di Vukovar (per lui una comparsata pure in Kosovo), è dall’aprile del 1992 in Bosnia che Arkan dà il “meglio” di sé. La dichiarazione di indipendenza votata dal Parlamento di Sarajevo fa scattare la brutale repressione serbobosniaca contro i bosgnacchi, i musulmani di Bosnia.
Milosevic è il mandante, Karadzic e Mladic gli esecutori, ma sono soprattutto le Tigri ad occuparsi del lavoro sporco. Mentre la capitale è sotto assedio, Raznatovic e le sue milizie ultranazionaliste seminano morte e vergogna nella Bosnia orientale. Ci sono loro a dettare i tempi degli stupri di massa a Foca, dopo il 1992 ribattezzata Foca “la serba”, e all’interno del centro termale Vilina Vlas, a Visegrad, città nota per il ponte narrato dal Premio Nobel per la letteratura Ivo Andrjic.
Prima, il 4 aprile, le Tigri avevano lanciato bombe dentro un bar bosgnacco a Bijelijna provocando 17 morti. Nei giorni successivi le vittime tra la popolazione sono salite a 500. Oggi Bijelijna è quasi totalmente serba. Raznatovic va ricordato anche per aver creato i diabolici campi di concentramento in ex Jugoslavia. Da quello di Luka Brcko all’orrore dei campi nella municipalità di Prijedor, nel nord della Republika Srpska. Omarska, Keraterm, Trnpolje. Gli orrori di quest’ultimo sono stati disvelati nell’estate del 1992 dai media britannici. L’immagine di Fikret Alic, allora ventenne, finito sulla prima pagina dei giornali dell’epoca, ridotto a pelle e ossa come migliaia di bosniaci, ha fatto epoca.
Oggi Alic, pendolare tra la Danimarca e Kozarac, vive nella paura del passato. Come in un perfetto copione, il colpo di scena finale Zeljko Raznatovic l’ha riservato per il genocidio di Srebrenica. Da quei giorni di luglio del 1995 per lui e per i vertici serbobosniaci è iniziata la latitanza. La sua è finita, esattamente quindici anni fa, nella hall di un albergo di lusso.