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 2015  gennaio 15 Giovedì calendario

Sale Ignazio Visco, scende Raffaele Cantone. E poi la mina vagante Prodi, la riserva Veltroni, l’evergreen Amato, l’outsider Finocchiaro. Le ultime sul toto-Quirinale, tra conteggi di voti e franchi tiratori, cene di correnti, accordi a mezza bocca e rassicurazioni di Renzi: «Alla quarta votazione avremo un nuovo Presidente»

Il meglio dai giornali di oggi sui possibili candidati per la successione di Giorgio Napolitano al Quirinale.
 
È partita la caccia da parte di Matteo Renzi a 505 grandi elettori sicuri per l’elezione del prossimo presidente della Repubblica. Con le dimissioni ufficializzate ieri da Giorgio Napolitano e con la convocazione dei 1.009 grandi elettori per giovedì 29 gennaio, i giochi adesso si fanno seri. E di colpo anche nel Pd dove fino a poche settimane fa si professavano quasi tutti renziani, iniziano i riposizionamenti e i ripensamenti che preoccupano seriamente il premier [Antonio Calitri, Mes].
 
Per Amato ha avuto parole commendevoli, a Del Rio ha spiegato che «tu saresti il mio ideale», a Casini non ha opposto veti all’ipotesi di un esponente dell’area moderata al Quirinale. Tranne Cantone – a cui ieri ha cancellato ogni aspirazione sostenendo in pubblico che «lui ha già tanto da fare all’Autorità anticorruzione» – al momento Matteo Renzi fa sentire tutti in corsa. Se i candidati del premier si costituissero in Associazione, capirebbero che a ognuno di loro è stata detta sostanzialmente la stessa cosa [Francesco Verderami, Cds].
 
Scrive Fabio Martini sulla Stampa che Romano Prodi è fuori dalla prima rosa dei candidati per il Colle, che poi per Renzi è quella che conta, quella con la quale vuole eleggere il prossimo Capo dello Stato. Nelle esternazioni pubbliche di queste ore il presidente del Consiglio ha detto poche cose ma chiare e la più chiara è questa: «Ragionevolmente a fine mese avremo il prossimo presidente della Repubblica». Dunque, sin dalla quarta o quinta votazione, quelle nelle quali è sufficiente la maggioranza degli aventi diritto.
 
La seconda cosa Renzi l’ha chiarita ieri pubblicamente: «Dobbiamo discutere il profilo di un grande arbitro che aiuti il Paese a crescere». Un identikit finalmente esplicito che, incrociato alle chiacchiere riservatissime fatte da Renzi con i suoi amici, aiuta a scoprire la sua carta coperta: il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco [Fabio Martini, Sta].
 
Subito dopo Visco, nella rosa di Renzi, almeno così dice nelle sue chiacchierate informali, c’è una seconda fascia, formata da due nomi, capaci di coagulare attorno a loro, maggioranze larghe: l’ex vicepresidente del Consiglio (del governo D’Alema), ex Dc, ex Ppi, attuale giudice della Corte Costituzionale Sergio Mattarella e il sindaco di Torino, nonché presidente dell’Anci, Piero Fassino [Fabio Martini, Sta].
 
Nella top ten di Renzi, in terza fascia, l’ex leader del Pd Walter Veltroni. Un nome, si sussurra a palazzo Chigi, che potrebbe essere calato in caso di crisi degli schemi di gioco precedenti. Naturalmente nella corsa al Quirinale contano i tempi di esposizione e di «combustione» mediatica e proprio per questo a palazzo Chigi hanno cercato di capire come fosse uscita sui giornali la voce di un Veltroni in ascesa e l’indagine ha dato una risposta, a suo modo, scontata, quando nel Pd si deve trovare il nome di un colpevole: una volta ancora, sarebbe Massimo D’Alema, l’«uomo nero» che torna buono in ogni stagione [Fabio Martini, Sta].
 
L’elezione del presidente della Repubblica è regolata dall’articolo 83 della Costituzione che prevede un’assemblea di grandi elettori formata dai deputati (630), senatori (315), senatori a vita (6) e delegati delle regioni (58). Per un totale, a questa tornata, di 1009 votanti a scrutinio segreto, due in più rispetto all’assemblea che ha eletto Napolitano nell’aprile 2013. Per eleggere il capo dello Stato, nei primi tre scrutini è necessaria una maggioranza dei due terzi degli elettori ovvero 672 voti se tutti gli aventi diritto partecipano. Dal quarto scrutinio basta la maggioranza assoluta che è di 505 voti. Con un Pd che tra deputati, senatori e rappresentanti delle regioni vanta quasi 450 elettori, sulla carta basterebbero soltanto altri 55 elettori. E se si pensa che la maggioranza di governo da sola ne vanta 589, il gioco dovrebbe essere una passeggiata. Di fatto le cose sono diverse e grazie al voto segreto, molti schemi che sulla carta funzionano, alla prova del voto cadono [Antonio Calitri, Mes].
 
In vista delle prime tre votazioni – le più insidiose per Renzi – i dirigenti del Pd hanno segnalato a palazzo Chigi movimenti di truppe Cinquestelle, pronte a votare Prodi per tentare di sabotare il patto del Nazareno [Francesco Verderami, Cds].
 
Ieri sera la cena di Raffaele Fitto con i suoi parlamentari. Lunedì a porte chiuse Massimo D’Alema riunisce i fedelissimi alla fondazione Italianieuropei. Gli ex democristiani del Pd si sono già contati martedì sera vicino al Pantheon con qualche ora di anticipo sulle dimissioni di Giorgio Napolitano. Erano 57. «Ma ne mancavano 4 o 5», aggiunge Beppe Fioroni. Come dire: non facciamo nomi ma siamo una sessantina abbondante, Renzi dovrà fare i conti anche con noi. È un calendario dell’avvento molto particolare. La data finale non è quella di Natale ma il giorno della prima seduta per l’elezione del capo dello Stato, il 29 gennaio. È il calendario delle cene, degli incontri segreti, delle riunioni di corrente. Per contare di più al momento della scelta, per sedersi al tavolo di chi decide un protagonista assoluto della politica [Francesco Bei e Goffredo De Marchis, Rep].
 
Per fare il punto, due giorni fa, Luca Lotti ha organizzato a sua volta una cena. Numeri piccoli: erano lui, il vicesegretario del Pd Lorenzo Guerini e il braccio destro di Franceschini Ettore Rosato. La corrente del ministro della Cultura vanta un buon numero di parlamentari, conosce bene i meccanismi che regolano i gruppi del Pd e gli equilibri per piazzare il nome giusto. Lotti ha tirato fuori la sua lista, l’hanno guardata assieme. La conclusione: si calcolano 50 dem sicuramente pronti ad andare contro il governo e contro il premier, 20 in bilico ma recuperabili.
 
Nel solo Pd, tra opposizione ufficiale, dalemiani e bersaniani passati con Renzi, il braccio destro del premier Luca Lotti ha contati massimo 130 franchi tiratori, troppi per reggere uno dei due schemi, maggioranza di governo o patto del Nazareno. I numeri che circolano, considerando anche una parte di Area Dem e i delegati delle regioni non renziani o renziani della seconda ora, parlano di una forbice di almeno 150 ma che può arrivare a 190. Una fronda che metterebbe a rischio qualsiasi patto. Anche perché, nel solito pallottoliere che tengono Lotti e Lorenzo Guerini, i renziani fedelissimi sono solo 250 [Antonio Calitri, Mes].
 
A tutto questo poi, va aggiunta la fronda di Forza Italia che sta organizzando Raffaele Fitto. Anche qui i numeri ufficiali parlano di 40 voti, ma considerando il lavorio che sta facendo l’ex ministro nelle regioni e i tanti scontenti che sanno che non saranno ricandidati, a maggior ragione se passa l’Italicum, sembra si possano superare i 50. E con quasi 240 franchi tiratori, non reggerebbe nessun accordo [Antonio Calitri, Mes].
 
In un possibile impasse, Renzi avrebbe sempre la carta in grado di sparigliare, futile come pretendono i tempi: la presidente donna. La triste uscita dalla corsa della Bonino, unica adeguata alla bisogna, fa sì che ne restino in lizza tre: Finocchiaro, Pinotti e l’ex ministro Severino. Gradite nella rosa per questioni di audience, hanno peso lieve, lievissimo, proprio come piace a Renzi. Forse non ai partner Ue [Roberto Scafuri, Grn].
 
Francesca Pascale ha fatto sapere a Repubblica di respingere l’idea di «un Veltroni o un Prodi» al Quirinale, come «il diavolo con l’acqua santa. Peccato che nessuno sia acqua santa». Poi ha snocciolato: «Letta, Casini, Amato», come triade da portare avanti perché «presidente e coalizione» hanno deciso così. E infine, a sorpresa, si è fatta sfuggire un sospiro di ammirazione per Anna Finocchiaro: «Sta sull’altro schieramento, ovvio. Però non posso negare che sia una donna di carattere, indipendente, con una sua storia. Ed elegante, sì. Il che non guasta» [Conchita Sannino, Rep].
 
«Me ne basterebbe uno che non firma qualsiasi cosa», dice Beppe Grillo. «Che non firmi leggi porcate», specifica Luigi Di Maio. «Ma tanto alcuni di loro (generico, ndr) vanno in Germania, negli Stati Uniti, vanno dai potenti e quando hanno il loro parere lo eleggono», aggiunge Grillo tirandosi fuori. A proposito: «Che sia una Merkel italiana!», dice ancora la Meloni. Anzi, proprio una donna, «sarebbe ora», dice il governatore leghista Bobo Maroni. E che donna? «Anna Finocchiaro è una abbastanza brava, anche se io ci metterei Ettore Albertoni», dice Umberto Bossi. «La Finocchiaro? Non ce la vedo proprio», dice Matteo Salvini, che preferisce «Angelo Panebianco e Piero Ostellino» [Mattia Feltri, Sta].