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 2015  gennaio 15 Giovedì calendario

I sessant’anni di Enrico Mentana: «Finalmente nessuno mi chiede più da che parte sto. Cairo mi offre libertà assoluta e la cosa incredibile è che rompiamo le palle da sempre lamentandoci dell’assenza di un editore puro e io l’ho trovato dopo 35 anni. Magari fa delle cazzate, ma si occupa di editoria e televisione, non di altro»

Gli occhiali sono finiti in un cassetto: «Non li metto da un paio di mesi. Ormai la vita la conosco e non ho più bisogno di guardare i dettagli. Intuisco le cose. Le percepisco. Mi oriento e tanto mi basta». Oggi Enrico Mentana compie 60 anni. Dal Villaggio dei giornalisti, periferia a Nord di Milano, complice una patente mai conseguita: «Continuo a camminare molto e non mi pesa», Mentana è arrivato a raccontare quello globale con un certo anticipo sui tempi, senza credere che la rotta prevedesse tappe o liturgie obbligate: «Non ho preso neanche la laurea». Ragazzo di bottega appena maggiorenne a La Gazzetta dello Sport: «Correggevo bozze». Praticante al Tg1 a 25 anni: «Facevo le brevi con una felicità che non so dirle e da milanese in trasferta romana dormivo negli alberghetti. Spendevo di meno e annullavo le incombenze. Aprivo una porta, mi buttavo sul letto e la mattina dopo ripartivo senza dover controllare se il gas fosse chiuso». Direttore a 36: «Il Tg5 partì proprio a gennaio, in queste ore, nel ’92». Con le sigarette sotto chiave e un primo caffè a cui seguirà corposa replica, Mentana non aspira più a niente: «C’erano illustri colleghi che avevano un difetto terribile: appena si sedevano in un posto, pensavano alla poltrona successiva. Non l’ho mai fatto e non inizio adesso. Sono a La7 e anche se dire “non lo farò mai” è un indizio di cretineria, proiettandomi in un ipotetico domani non mi vedo in un’altra tv, ma ai giardinetti. Sono sincero. Conduco un Tg quasi tutti i giorni, scrivo su un settimanale, collaboro in radio. Ma a un dato punto devi smettere di correre e – suggeriva Goethe – ricordarti anche di vivere».
Sulla strada del bar scelto per l’incontro passano coppie di bucanieri pomeridiani, Marco Giusti e Freccero: «Carlo, ma è vero che vai in tv per farti lavare i capelli?», avvocati che un tempo duellarono per Valpreda e Pasolini di nome Guido Calvi: «Salve santità!», colleghi, ammiratori occasionali. A tutti una battuta, un abbraccio, una stretta di mano. In sottofondo la risata di Mentana. Rumorosa. Coinvolgente. Vagamente cavallina: «Tutto ciò che ti fa staccare almeno per un istante dalla serietà porta con sé dei meriti. Non mi sono mai fatto una canna, se non per provare, più di 30 anni fa, ma amo l’aspetto ludico dell’esistenza e non me lo sono mai negato. Scherzo, gioco alla Playstation e ho imparato che l’ironia è importante, ma l’autoironia è fondamentale. L’ho sempre praticata e applicata anche alle mie manie».
Racconti.
«Da ragazzo leggevo i giornali dalla prima all’ultima riga e proprio come lo stolto di Cristo si è fermato a Eboli sapeva le formazioni di calcio a memoria, io conoscevo anche le firme dei corrispondenti più oscuri. Ero uno scemo simile. I compagni di Liceo mi prendevano in giro: “Enrico, chi scrive da Biella oggi?”».
Quell’ossessione a qualcosa è servita.
«Forse era una forma di autismo, ma al tempo stesso era vera passione. Mio padre Franco lavorava alla Gazzetta dello Sport, tornava a casa per cenare tutte le sante sere e la domenica mi portava a San Siro. Era il nostro rito. Lo pagavano per scrivere di calcio. A me sembrava facesse il mestiere più bello del mondo».
In breve tempo divenne anche il suo.
«Sapevo che non avrei mai fatto il giornalista sportivo. Quello era il lavoro di mio padre. E tutto può fare un figlio nella vita tranne che calcare i suoi stessi passi. Mi sono comportato di conseguenza. Per due volte mi hanno offerto di dirigere la Gazzetta e per due volte ho detto no. Sono pazzo dello sport, ma esistono confini che non vanno superati».
Alla fine degli Anni ’70 lei si trasferì a Roma e trovò occupazione in Rai.
«Mio padre cercò un equilibrio tra stima e disappunto. Vedermi partire lo addolorava, ma considerava lo strappo inevitabile. A vent’anni, provare a costruire il tuo futuro più che un diritto è un dovere. I miei lo sapevano e avevano vissuto ben altro. Mia madre era ebrea e a 12 era rimasta chiusa e nascosta per molti mesi in un casolare isolato. Papà, sorpreso dall’8 settembre era andato con i partigiani in montagna. Relativizzare, a casa mia, rappresentava più di una filosofia».
Cosa altro c’era a casa Mentana?
«La semplicità dello stupore. Quando mi regalarono il mio primo registratore, il Geloso, mi sembrò di essere in rampa di lancio a Cape Canaveral. Oggi i bambini sono ipertecnologizzati e hanno lo smartphone a 7 anni. È meglio? È peggio? Non lo so. So che la mia generazione è cresciuta in un mondo diverso. C’era la politica. C’erano le assemblee. C’era una gara a conoscere di più e a primeggiare con la parola per smania di sapere, bisogno di autostima, necessità di far colpo sulle ragazze. C’era un bagaglio di nozioni e di ideali da mettere al servizio di qualcosa. Abbiamo fatto l’unico lavoro che ci permetteva di non sapere un cazzo di niente e tutto di tutto. Il mio».
Sognavate di cambiare il mondo?
«Non abbiamo cambiato il mondo, ma ci siamo dati gli strumenti per raccontarlo. In fin dei conti, un prolungamento e un’appendice di quel sogno. Siamo a contatto con i fatti».
E con la crisi del mestiere.
«C’è un rattrappimento, una regressione che accomuna tv e carta stampata. Il giornalismo si trova in una situazione terrificante. È arroccato, in difesa, terrorizzato dal cambiamento. È un prodotto fatto da sessantenni che parlano solo ai sessantenni. In parallelo cresce una generazione che ha dimostrato di avere un altro calendario e di non ritenere più rilevanti le messe che officiamo. È un passaggio epocale davanti al quale siamo disarmati».
Sembra disarmata anche la politica.
«Come alla fine del Rinascimento, l’Italia somiglia a un paese appassito e preso alla sprovvista dalla modernità. Dal passaggio all’euro come dalla rivoluzione digitale. La politica, poi, è finita. Sono cambiati i riferimenti. Crollate le sezioni e il sistema di cooptazione. Oggi siamo alla democrazia rappresentativa svuotata dalla politica. Un tempo, a prezzo di notevoli abomini, i partiti coltivavano un’idea di società che era discriminante. O di qua, o di là. Per affermare la propria identità ci si scannava. Oggi è tutto liquido. Indistinto. Il Pd governa con il delfino di Berlusconi. E la verità è che, al di là della capacità operativa di ognuno, nessuno percepisce grandi differenze tra i leader delle nostre formazioni politiche. Ma idea di come si confrontassero sui modelli alternativi di società quei meravigliosi pazzi dei nostri padri costituenti? Oggi, con tutto il rispetto, vediamo riforme figlie dei dissidi tra il ministro Boschi e Corradino Mineo. Sarà un’altra cosa o no?».
Assistiamo alla dipartita del merito?
«È scomparso il merito e la gavetta è considerata inessenziale. È un peccato perché è ancora imprescindibile. Ai pochi giovani che ho in redazione dico che bisogna essere concentratissimi e umili nel fare tutto. Dal titolo alla didascalia. Il tipico giornalista di mezza tacca di oggi è quello che non essendo più l’ultimo della fila, si monta la testa, storce il naso e si rifiuta di fare ciò che improvvisamente considera sminuente. Senza capire che non c’è nulla di più appagante del lavoro giornalistico in comune. Un gusto antico che è al tempo stesso individuale e collettivo. Un gusto che si è perso».
Ha molti amici giornalisti?
«Ho pochi amici in generale e nessun giornalista tra loro. Ho buoni rapporti con i miei colleghi, ma gli amici veri sono un’altra cosa. Nel nostro mestiere è tutto un “ciao, come va?”. Non ho mai creduto a quelli che hanno 100 amici. Amico è una parola seria. Per contare i miei, basta la mano destra».
Ribalto il sillogismo. Colpa del mestiere che fa?
«Nel giornalismo funziona così: quel che hai fatto è merito tuo, quel che non sei riuscito a fare è sempre colpa di qualcun altro. Il sacramento principale, il primo comandamento della professione, è l’autoassoluzione. E anche con la gratitudine, soprattutto con chi è stato miracolato, non siamo messi tanto bene».
È stato ingrato anche lei?
«Possibile. Ad alcune persone, penso a Emilio Rossi, già fondatore e direttore del Tg1, l’uomo pudico, schivo e coraggioso che mi assunse nel ’79, sono stato sempre grato. Ma per me è più semplice. Ho avuto successo e mi sono potuto permettere di dividerne la paternità. Quando resti a metà del guado, essere generosi è più difficile».
Mentana, dicono, è vanesio.
«Verissimo. Anzi, a tratti direi molto vanesio. Ma, credo, capace di moderazione. Devi stare attento alle trappole. Amare te stesso non significa amare il giornalismo. Io ad esempio non mi rivedo mai».
Il 13 gennaio 1992 se lo ricorda?
«Prima edizione del Tg5. Mi venne offerta un’occasione incredibile. Potevo assumere chi mi pareva e lo feci. Puntai sui giovani ed edificammo un telegiornale alternativo a quelli paludati e prigionieri della politica che andavano in onda sulla Rai. Erano attaccabili. Erodibili. Bisognava solo trovare qualcuno che lo facesse. Avevo due regole che valevano per tutti».
Quali?
«La prima era che i miei giornalisti, 40 in tutto, per usare un termine orrendo, dovevano essere multitasking. Scambiarsi di ruolo. Saper fare ogni cosa».
E la seconda?
«Dovevano stare lontani dal corridoio. Il vero nemico del giornalismo è il corridoio. L’antro in cui ci si lamenta e si parla male del collega per noia o frustrazione. Io li mandavo in onda dalle 6 di mattina alle 9 di sera. L’occupazione è un ottimo antidoto alla cattiveria gratuita sussurrata di fronte alla macchinetta del caffè».
Da Mani pulite ai sequestri di persona, dalla Guerra in Serbia alle Torri Gemelle, il suo Tg raccontò un decennio rivoluzionario.
«Diedi grande spazio alla cronaca. Alle storie eccezionali che capitavano alle persone normali. C’era quello spazio e lo occupammo. Poi la cronaca venne monopolizzata da Mario Chiesa, dalle tangenti e dal crollo della Prima Repubblica e ci trovammo a lavorare su tutto un altro film. Raccontammo tutto senza guardare in faccia a nessuno che era esattamente ciò che la Rai, per ovvie ragioni politiche, non era in grado di fare».
Superaste il Tg1 fin dalla prima sera.
«Dopo un anno, Adriano Galliani, un signore che più in là del suo ruolo nel Milan, disbrigava per Mediaset anche alcune questioni operative, mi chiese di cosa avessi bisogno. Se volevo un aumento. “Vorrei un corrispondente a Torino e uno a Bari” risposi. Non avevamo abbastanza elementi. Pensi che a Palermo, nel ’92, per coprire la stagione delle stragi di mafia, fummo costretti a ingaggiare un ragazzino. Quel ragazzino era Salvo Sottile».
Con Berlusconi il rapporto è stato alterno. Nelle pieghe di una lunga dialettica tra editore e dipendente, c’è stato spazio anche per una guerra non dichiarata a bassa intensità? Abbiamo assistito a una gara di celodurismo tra lei e l’ex premier?
«I risvolti psicologici, anche senza scomodare Freud, esistono. E le cose sono sempre più complicate di quanto appaiano in prima battuta. Pensi a quest’uomo, ai tempi già molto spregiudicato, che mi assume per fare un telegiornale da zero e non mi dice “aiutiamo Bettino” ma soltanto: “Faccia il giornale più libero che può”. E poi pensi a questa stessa persona che due anni dopo scende in campo e si candida alla guida del Paese. Berlusconi è sempre stato ambivalente. Lo è tuttora».
In cosa consiste l’ambivalenza?
«Nel provare a convincerti dell’esattezza del suo punto di vista. Nel godere a sostenere la genuinità della sua ascendenza libertaria. “Sì, sono Berlusconi, ma sono anche l’editore di Gomorra, lo stesso che ha messo Mentana a dirigere il mio telegiornale di punta”».
Le dava fastidio?

«No, nella mia situazione specifica caso e necessità si sono mischiati. Il caso è stato il successo. Andavamo bene e nessuno come il padrone di una società calcistica sa che “squadra che vince non si cambia”. La necessità invece confinava con la paraculaggine. Se hai una rete in cui si muovono Ricci e Costanzo, con un Tg che dà prima di tutti gli altri la notizia che il tuo editore è indagato per mafia, farti passare per illiberale è dura».
Quindi si è sentito libero in Mediaset?
«Fino a un certo punto del percorso, con Confalonieri come garante, ho fatto il cazzo che mi pareva. Per questa ragione non ce l’ho mai avuta con l’editore Berlusconi e fino a quando è stato possibile, pur essendo stato destituito dal Tg5, rimasi in azienda e mi diedi un’altra occasione con Matrix. Solo dopo il quadro si immalinconì e si corruppe. Come succede in una coppia non più felice in cui ogni pretesto può portare alla separazione».
Vi separaste infatti.
«Ma sono testimone del fatto che Berlusconi non è un angelo e non è un diavolo. Senza di lui non avrei fatto il Tg5 e sarei probabilmente finito nel gorgo della lottizzazione Rai. Se non ci fosse stata alternativa all’informazione canonica, ne avremmo patito tutti. Un ruolo trainante, Berlusconi l’ha avuto eccome».
Stupisce sentirglielo dire.
«Il dopo condiziona sempre il prima, quindi se oggi dici una cosa del genere ti prendono per pazzo, ma fu così. Garantisco. Per fortuna oggi non mi chiedono più da che parte sto. Non voto e non sono più visto come disertore. Faccio ormai parte della maggioranza assoluta».
Il futuro di Renzi è in salita?
«Renzi è stato un vero crac, ma oggi ha il problema di maturare e presentarsi in una veste diversa. L’effetto iniziale della novità sta svanendo. Anche Aldo Giovanni e Giacomo erano straordinari quando apparvero a Mai Dire Gol, poi però arriva un momento in cui devi rivedere il repertorio. Quel momento è giunto anche per Renzi».
Non mi dirà che Berlusconi potrebbe persino rivincere?
«Tecnicamente può accadere. Ora tra i due schieramenti ci sono 5 punti di distanza, domani può succedere di tutto. Quante volte nella nostra storia recente abbiamo visto personaggi destinati al dimenticatoio riemergere e affermarsi? Non so se sarà il caso di Berlusconi, ma so che abbiamo passato anni a tentare di prevedere cosa avrebbe fatto e abbiamo sbagliato spesso. Nessuno di noi lo votava e nessuno faceva parte del suo “popolo”. Ergo, nessuno può dirlo oggi con certezza».
Ora a La7 è felice?
«Quando ho preso in mano il Tg ero consapevole di dover fare il contrario di quello che avevo fatto nel ’92. Lasciare la cronaca per dare spazio anche ad altri mondi. È avvenuto».
Come sono i suoi rapporti con Cairo? È vero che la spending review di La7 è selvaggia?
«L’ho visto con i miei occhi, in situazioni delicate e con i potenti infuriati alla porta, prendere senza titubare le parti dei giornalisti e degli autori. Mi offre libertà assoluta e la cosa incredibile è che rompiamo le palle da sempre lamentandoci dell’assenza di un editore puro e io l’ho trovato dopo 35 anni di televisione. Magari fa delle cazzate, ma si occupa di carta stampata, editoria e televisione. Non di altro. Ci sarebbe anche il Torino Fc, ma è un’altra storia».
Però taglia i costi, giusto?
«Non è prodigo e tra uno con le mani bucate e Scrooge, il secondo gli è più affine. Ma con i numeri de La7 si poteva operare drasticamente e lui ha evitato. È vero, siamo in spending review, ma chiedo? Conta più la libertà o l’optional? A me di guadagnare un po’ di meno frega zero. Anche perché noi “vecchi” abbiamo una responsabilità della Madonna».
Quale?
«Redistribuire un po’ dei soldi che guadagniamo. Noi lavoriamo e i giovani no. Per giustificarci ci diciamo che li manteniamo noi, ma forse, se potessero scegliere, i ragazzi farebbero per conto loro».
Cosa propone?
«Un atto di solidarietà generazionale. Se ci dicessimo davvero “guadagniamo un decimo in meno e assumiamo altre 3 o 4 persone tra i 25 e i 30 anni” firmerei subito. Quante cose si potrebbero fare con quei soldi?».
Si faranno?
«Non lo so. Lo spero. Andrebbe invertita la tendenza. Lei sa quanto guadagna un direttore di giornale? Sfiora il milione di euro. Con la metà starebbe peggio? La verità è che certi giornalisti passano la vita a fare i giornalisti dipendenti e, anche se non lo ammetterebbero neanche sotto tortura, sono assetati di soldi. Eppure potrebbero fare un gesto importante e rendere un servizio serio. Si lavora per la gloria, per il potere, soprattutto per non stare a casa. Non certo solo per la pecunia».
Lei per che cosa lavora?
«Compatisco gli schiavi della mondanità, quelli che trovi a tutte le feste. Io riesco ad andare al cinema un paio di volte l’anno e cerco di essere un uomo del mio tempo. Non è facile. Me ne sono reso conto quando mi hanno indicato una ragazza “quella somiglia a Lady Gaga”. Non sapevo chi fosse. Qualcosa per strada te la perdi, tutto non puoi inseguire. A scuola non ero un secchione, ma quello che studiava affannato la notte prima degli esami».
Umberto Eco sostiene che invecchiare sia meraviglioso.
«È presto per dirlo. Quando comincerò a invecchiare le darò la mia opinione».