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 2015  gennaio 15 Giovedì calendario

La figura della dark lady è antica quanto la letteratura e ha prodotto personaggi indimenticabili, da Salomè a Lady Macbeth. Ma ora il successo di film come “L’amore bugiardo” e di serie televisive come “House of Cards”, con le loro protagoniste spietate, rilancia il mito delle cattive ragazze

La perfidia è l’arte dell’attesa. E le donne – lo scrive Valeria Palumbo in un saggio uscito qualche anno fa, intitolato La perfidia delle donne (Longanesi) – sanno attendere meglio degli uomini. Come animali affamati, hanno usato, anche, l’astuzia per portare a casa giorno per giorno un pochino di potere in più. Lady Macbeth, Messalina, Erodiade che incita la figlia Salomè a chiedere la testa di Giovanni. Elsa Maxwell, che sezionava le sue vittime e poi le esponeva nelle cronache mondane, Elisabeth Nietzsche, sorella del filosofo, che fondò una colonia per la purezza della razza, trasformando le idee del fratello in apologia nazista e antisemita. Ognuna di loro cercava spazio e non lo avrebbe ottenuto se non picchiando forte.
La cattiveria è un mezzo, del quale ci si potrebbe sbarazzare una volta ottenuto il risultato. E se fosse anche divertente? Come spiega la psicoanalisi, la donna ha una vita psichica più articolata rispetto a quella del maschio, con tutto quello che ne consegue. Compresa la voluttà del dispetto, la difficoltà ad abbandonare la preda una volta che se ne sia assaggiato il sapore del sangue. Ovvio che questa non è una caratterista del femminile, ma una delle sue potenzialità, spiegano gli studiosi della mente. Le donne godono poco a stare in branco, trovano deprimente essere riconosciute come parte del gruppo. Piuttosto amano sviluppare ciò che le differenzia, non temono di percorrere da sole tutto il cammino verso l’individualità, qualunque cosa ci sia in fondo. In letteratura, la femme fatale, la cattiva ragazza, la perfide avventuriera è sempre esistita. Ma secondo quanto raccontano alcuni giornali americani, l’avvicinarsi del break even, del punto di pareggio nei ruoli sociali tra uomini e donne, avrebbe risvegliato l’ossessione. Quanto più le donne ottengono prestigio, stipendi, potere, tanto più troverebbero divertente la cattiveria. In letteratura, ovviamente. Capofila di questa corrente di new dark lady sarebbe Amy Dunne, la protagonista del romanzo di Gyllian Flinn, Gone girl (tradotto disastrosamente da noi con L’amore bugiardo). La cui popolarità, già notevole, si è moltiplicata con l’uscita del film omonimo che il regista David Fincher ha tratto dal libro.
Amy Dunne, interpretata da Rosamund Pike, è uno dei personaggi femminili più fastidiosi della storia della letteratura dalle origini. Nonostante si prefigga l’obiettivo contrario, almeno nei confronti del marito Nick. Amy vuole essere la più desiderabile, adorabile, intelligente femmina mai esistita, per formare con lui la coppia più bella del mondo. Ma quando il debosciato Nick inizia a bere e giocare alla playstation, si trova un’amante e insomma si trasforma nell’archetipo del maschietto pirla, Amy si arrabbia moltissimo. E piuttosto che diventare a sua volta uno stereotipo di mediocrità, preferisce farsi pazza. Isterica, sanguinaria, senza pietà. Al suo confronto la Glenn Close di Attrazione fatale e la Sharon Stone di Basic Instinct sono due mammolette. Non tanto per livello di efferatezza, quanto per la vanità delle motivazioni che dovrebbero sostenere i suoi gesti. Per quale ragione faccia tutto quello che fa, non è importante. L’importante è la frenesia del fare e raccontare. Amy Dunne è femminista? Maschilista? A quale delle due cause porta argomenti?
In America, dove film e libro hanno avuto un successo enorme, la critica si è scervellata. Sembrebbe semplicemente afflitta da un bovarismo un po’ particolare, sadico. Romantico, forse, ma non auto-distruttivo. Vale la pena ricordare che il regista, Fincher, (oltre che aver diretto The social network, Fight Club, Il curioso caso di Benjamin Button...) è il complice di Kevin Spacey nell’ideazione e realizzazione della serie House of cards, prodotta per Netflix. Nella quale Robin Wright, la protagonista femminile, interpreta una delle più eleganti stronze senza cuore che si siano mai viste in tv, Claire Underwood, disposta a un po’ più che qualsiasi cosa pur di diventare la moglie del presidente degli Stati Uniti. Sì, certo, gli sceneggiatori ce l’hanno messo l’alibi (è stata violentata da un compagno di corso all’università, la sua vita è un lunghissimo risarcimento che pensa di meritare), ma la verità è che Claire si diverte a essere Claire. Perché la cattiveria è molto più eccitante della pietà.
La scrittrice Elena Ferrante, chiunque essa sia, ha completato quest’anno la tetralogia di L’amica geniale con l’ultimo titolo Storia della bambina perduta. Protagoniste delle migliaia di pagine che la compongono sono Elena Greco, la voce narrante, e Lila Cerullo, l’amica geniale. Si conoscono da bambine, nelle strade di un quartiere popolare di Napoli. La loro amicizia nasce intorno a due gesti, identici e opposti. Elena ha paura, stanno salendo scale buie di un palazzo malfamato, e Lila le stringe la mano. Elena decide che è arrivato i momento di fidarsi di Lila e le presta la sua bambola, Tina. Lila lancia Tina al di là di una grata, dove non potrà mai più essere raggiunta. Perchè? Perchè Lila è cattiva, prende a pugni i maschi, è irrequieta. Nella sua vita prenderà solo decisioni dettate dalla sua straordinaria intelligenza, senza mai, mai ascoltare i consigli di qualcuno. Si metterà nei guai, sperpererà tutto, avrà intuizioni geniali che brucerà solo per fare dispetto ai suoi nemici. Nonostante tutto il suo talento, scriverà solo un racconto, La fata blu ( che brucerà dopo averlo fatto leggere solo a Elena) lasciando all’amica lo spazio per raccontare le loro vite. E forse, pensa Elena alla fine di tutto, proprio La fata Blu è la cosa più bella che sia stata scritta su loro. Perché è stata scritta da quell’angolo oscuro, incondivisibile in cui vivono le persone sprecate, cattive, geniali.