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 2015  gennaio 15 Giovedì calendario

I nove intensissimi anni di Napolitano al Quirinale: il difficile rapporto con Berlusconi e la durezza della crisi, poi le scelte contestate dei governi Monti, Letta e Renzi, la sofferta rielezione e l’inchiesta di Palermo. Una parabola tutta in salita, percorsa con l’austera dignità di altri tempi

A dar retta a certe teorie, a certi calcoli, a certe suggestioni del pensiero laterale Nove è il numero sacro della soddisfazione spirituale, il compimento dell’obiettivo, principio e fine, intelletto puro, verità che si riproduce nel multiplo di se stessa.
Nove volte i cinesi si inchinavano dinanzi all’imperatore, nove volte dovevano toccare il suolo con la fronte i dignitari ammessi al cospetto di antichi re africani; e se il Buddha è la nona reincarnazione di Vishnu, beh, la faccenda numerologica sta certo andando un po’ in là, ma nove anni, mese in più mese in meno, è durato il prolungatissimo settennato di Giorgio Napolitano.
Non si dirà qui il regno per non contraddire l’ormai ex sovrano, che nell’udienza con i giudici di Palermo, due mesi orsono, tenne a dire con risolutezza: «Qui al Quirinale non c’è una monarchia. E nemmeno – aggiunse – una Repubblica presidenziale», argomento già più discutibile.
La corona gliela aveva apposta sul capo il New York Times battezzandolo «Re Giorgio» nell’autunno del 2011, dopo lo scambio Berlusconi- Monti a Palazzo Chigi.
In realtà più che un «capolavoro», fu quella una disperata via d’uscita, per giunta tutt’altro che risolutiva, sebbene rapida e assai «presidenziale». Oltretutto proprio da quel momento Napolitano divenne bersaglio dei peggiori dardi. E insomma davvero in cuor suo Napolitano riteneva di aver chiuso con gli onori e gli oneri del comando. Sognava Capri, magari Stromboli, il dolce tran tran del rione Monti dove tutti gli volevano tutti bene e lo festeggiavano – perfino la neve artificiale! – anche quando non abitava più lì – e la famiglia, gli studi, forse le poesie in dialetto napoletano, invero tutt’altro che disprezzabili, che comunque appena eletto smentì di aver mai composto.
Questo per guardare al roseo futuro. Ma sul finire del primo mandato, nel pieno dell’ingorgo istituzionale, appariva triste, lento, la voce non più tonante. Mai assente e anzi ben sveglio nei pensieri, nell’eloquio e nella scrittura, aveva preso a commuoversi con preoccupante frequenza. Per anni impassibile, molto «inglese» come si scriveva per definirlo freddo, a volte perfino un po’ altezzoso, gli anni al Quirinale l’avevano ammorbidito, in qualche modo anche addolcito, comunque «popolarizzato», come usa oggigiorno per far sentire i politici più vicini alla gente.
Pettorine sgargianti, quindi, curiosi berretti, torte di svariate fogge affettate in pubblico, cerimonie con sportivi, divi e dive, personaggi della moda; e colpiva in questo nobile e contegnoso esponente di un ceto politico ormai quasi estinto lo sforzo di assecondare la vogue pop pur vietandosi, per quanto possibile, lo slittamento nel trash. Solo a Napoli si lasciava un po’ andare, ma lì il calore è congenito e quindi con gioiosa naturalezza il presidente espose la t-hirt con la scritta «Mi chiamo Giorgio e sono nato a Napoli», si lasciò intitolare un cocktail del Gambrinus. Solo una volta, quando al termine del musical “Scugnizzi” alcuni Pulcinelli scesero in platea per abbracciarlo e si divertirono a impiastricciare di nerofumo il volto dell’illustre spettatore, Napolitano parve un po’ seccato.
Per il resto sono stati nove anni di interventi assai seri che brillanti, impeccabili note costituzionali, rare interviste, precisazioni assidue nella loro pignoleria, messaggi tv tendenzialmente soporiferi. Anche le parodie e le imitazioni, d’altra parte, al massimo della professionalità del ramo (Fiorello e Crozza), si può dire che cogliessero lo spirito di questa sua antiquata e ormai così insolita rispettabilità.
I sondaggi, mai compulsati con la smaniosa libidine degli altri potenti, confermavano che in una remota zona dell’immaginario gli italiani seguitavano a coltivare un qualche rispetto per chi rappresentava le istituzioni con indiscutibile dignità. O forse era proprio lo stile austero di Napolitano che spiccava tra le battute, le smorfie, le barzellette, le variazioni calcistiche e le scemenze che andavano per la maggiore in un’Italia sempre più ignorante, sempre più corrotta e cialtrona.
E possibile che il pubblico giovanile l’abbia apprezzato più di quanto s’immagini per questa sua autentica «diversità». L’altro giorno, a “Gazebo”, un valente disegnatore di ultima generazione, Makkox, ha voluto salutare le imminenti dimissione con le lacrime di un corazziere. Certo con Napolitano la satira è stata più leggera degli attacchi politici. Oh quanti! Le minacce di Berlusconi, le corna di Bossi (che non gli risparmiò anche «terùn»), gli spilloni di Di Pietro, le fiaccolate dei giustizialisti; per non dire Grillo che già da anni l’aveva preso di mira: vecchio furbo, Morfeo, fai vedere la cartella clinica...
Ma il suo vero dramma stava nell’essere percepito come voce che gridava nel deserto: abbassate i toni, fate le riforme, e quelli gli dicevano sì-sì come a un nonno rimbambito continuando i loro giochi e le loro risse mentre tutto davvero seguitava a crollare.
Sette anni sono già tanti. Per cui nove, in vecchiaia, ne valgono il doppio. Quando gli prese un mezzo coccolone, a Bolzano, un caldo pazzesco, una toga pesantissima nella quale l’avevano involtolato per una laurea honoris causa, donna Clio, che pure aveva avuto i suoi guai (investita fuori dal palazzo da un’auto guidata da un ex senatore del Pci!), disse che il Quirinale non era «una passeggiata di salute».
Ma oltre alla fatica e ai malanni, erano l’umore e l’animo, se è consentito, ad essere neri: «Dopo 7 anni sto finendo in modo surreale il mio mandato trovandomi oggetto di assurde reazioni di sospetto e dietrologie incomprensibili...». Dietro la formula s’indovinava il più inconfessabile scoramento: l’impossibilità pratica e teorica di governare questo pae- se nel momento peggiore.
Non solo per questo la rielezione fu «evento abnorme» (il giurista Franco Cordero), un «riflesso pavloviano» (lo scrittore Vincenzo Cerami). «Massimo leader morale rimasto in piedi tra le rovine fumanti» (lo storico Salvatore Lupo) accettò per senso di responsabilità. «Ma questo – ha scritto Adriano Sofri – è il farmaco fatale del potere: medicina e veleno, guai a mancarne, guai a restarne prigionieri».
Comunque si tolse il gusto di flagellare chi l’aveva richiamato al suo posto. Vero è che appena rieletto parve arrestare il declino e nei tg lo si vide perfino ringalluzzito. Ma sugli spalti, nemmeno troppo per scherzo, quel giorno Berlusconi esortò le sue deputate a intonare «Meno male che Giorgio c’è». Era un altro segno della miseria, della spudoratezza e dell’imbuffonimento della politica.
Il Berlusconi trionfante del 2008 desiderava così evidentemente il Quirinale che quando si trovava in quel Palazzo aveva l’aria di prendere le misure con l’aria di pensa: «Un giorno tutto questo sarà mio». Ma nel frattempo molto altro gli stava a cuore. Così il maggior sforzo di Napolitano fu contenere il Cavaliere concedendogli quel poco che gli consentiva di negargli quanto valutava più importante: giustizia, informazione, federalismo fiscale, provvedimenti a favore di Mediaset, leggi ad personam.
Fu un gioco duro, sottile, non sempre visibile e anche rischioso. Il punto più alto dello scontro il decreto legge su Eluana. Napolitano non l’avrebbe mai firmato, il Cavaliere disse che questo l’avrebbe portata alla morte. Intanto scoppiava la crisi economica. A volte il presidente dette l’impressione di voler prendere tempo, altre di salvare il salvabile.
È brutto da dirsi così, ma gli scandali sessuali berlusconiani (Noemi, D’Addario, Ruby) consentirono al Quirinale di guadagnare un po’ d’ossigeno imponendo il rispetto della Costituzione e anche della ragionevolezza a un premier indebolito. Tra un colpo di sonno e una minaccia, andò avanti così per tutto il 2010 e quasi tutto l’interminabile 2011. Un giorno Berlusconi alzò la voce. Gelido Napolitano gli rispose: «Si calmi».
Quando, prima sulla Libia e poi sulla tempesta monetaria, leader mondiali presero a rivolgersi direttamente al presidente della Repubblica, il berlusconismo era ormai finito. Ma per Napolitano cominciò il peggio. Monti, Letta, le grandi intese, l’inchiesta di Palermo, il governo Renzi, tutto sempre più difficile, insomma nove anni davvero possono bastare.
Ci può essere un po’ di poesia anche in questo: «Ora, solo ora ho infranto i miei incantesimi – dice Prospero ne “La Tempesta” – Ora gioca la mia sola forza, e poca. Rompete voi il vostro incantamento con le vostre mani magiche e spingete le mie vele con i vostri fiati, amici. Non ho più a darmi manforte i miei spettri alleati e alla fine ubbidienti. Né artifici, né incantamenti! E se a voi, cari signori, piace d’essere perdonati dei peccati, date adesso a me licenza di partire e di accomiatarmi libero». L’archetipo del Nove, guarda guarda, è «il Liberatore».