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 2015  gennaio 15 Giovedì calendario

L’addio di Giorgio Napolitano al Quirinale: «Scusatemi se vi sono sembrato, o se proprio non sono stato, abbastanza sorridente con voi. Sappiate però che vi sono davvero grato, e che vi avrò sempre cari per l’aiuto che mi avete dato in questi anni straordinari e che mi hanno cambiato molto, in profondità»

«Scusatemi se vi sono sembrato, o se proprio non sono stato, abbastanza sorridente con voi. Sappiate però che vi sono davvero grato, e che vi avrò sempre cari per l’aiuto che mi avete dato in questi anni straordinari e che mi hanno cambiato molto, in profondità». Si è veramente liberato da un certo modo di essere, sia nel privato come sulla scena pubblica, soltanto nelle ultime ore al Quirinale, Giorgio Napolitano. E questo saluto ai collaboratori più stretti lo dimostra, perché scioglie un autocontrollo così assiduo e severo da farlo a volte apparire non solo poco partenopeo, ma quasi disumano perfino. Mentre stavolta l’empatia con chi lo circonda scatta sul serio e ciò che pensa glielo si legge nel volto. «Ne abbiamo passate, eh, presidente? Del resto, si sa: nessuna istituzione è un’isola del sublime», dice un suo consigliere, uscendo dallo studio dove sono appena state firmate le dimissioni e citando un’efficace battuta del costituzionalista Mario Fiorillo.
È davvero così: sono stati due mandati straordinari, e anche duri e difficili, quelli di Napolitano al vertice della Repubblica. Una stagione sulla quale ha lasciato il segno, specie nell’ultimo biennio, una logorante catena di attacchi e polemiche. Tensioni continue, che si sovrapponevano al già delicato e complicato lavoro «d’ufficio», e che adesso è dissolta. Il capo dello Stato è nello studio alla Vetrata e lì aspetta che il segretario generale Donato Marra completi il giro fra Palazzo Madama, Montecitorio e Palazzo Chigi per formalizzare il congedo. Questione di mezz’ora.
Beve un caffè con lo staff. Gli mostrano qualche titolo dei giornali, ma soprattutto gli fanno scorrere le ultime lettere giunte al Quirinale dall’Italia e dal mondo. Parecchie hanno sul mittente i nomi di capi di Stato e di governo. Una è del Papa, «bellissima, un grande onore». Una porta il cartiglio dell’Eliseo ed è di François Hollande, affettuosa e piena di riconoscimenti, con un’aggiunta a mano: «Caro Giorgio, la Francia è orgogliosa di averti avuto come amico». La conferma che la cura con cui ha coltivato i rapporti internazionali produce sempre buoni dividendi. Gratificanti per lui, certo, ma soprattutto per il Paese, commenta.
Il presidente legge e passa oltre, siglando qualche missiva personale dettata alle segretarie la sera prima e aggiungendo alcune risposte da far spedire con urgenza, quando arriva Clio. È un po’ scocciata per aver «preso freddo nei saloni giù sotto», dov’era rimasta ad aspettare, convinta che le procedure fossero più brevi. Anche lei ha un’espressione fra il sollievo e un vago smarrimento. In fondo termina per entrambi una lunga parentesi e negli sguardi che dedica al marito si coglie l’attenzione apprensiva di chi vuol capire come stia prendendo quest’ultimo passaggio. Lo vede piuttosto provato. Un po’ in affanno, se non spossato. E questo forse la preoccupa.
A chi l’affianca, la first lady (espressione che peraltro non le è mai piaciuta, perché troppo pomposa) non domanda il classico «abbiamo preso tutto?» di quando si sta per completare un trasloco. Sa che ogni documento e oggetto è stato controllato e chiuso negli scatoloni da settimane. «Questo va agli archivi del Quirinale… questo negli uffici di Palazzo Giustiniani… questo a casa».
Una selezione alla quale, per quanto riguarda le carte e i libri, ha voluto sovrintendere lo stesso presidente. Dal suo studio privato, cosiddetto «alla palazzina», si è voluto portare dietro alcuni volumi acquistati in tempi remoti, dai quali non si è mai separato e che a volte sfogliava come per prendere ossigeno. Per esempio, una raccolta di versi di Eugenio Montale, una di Giuseppe Ungaretti: passioni della giovinezza, assieme al teatro e alla musica, cui è ritornato sempre, quasi all’insegna del principio psicoanalitico del «regredire per progredire», cioè ricordare il passato per immaginare il futuro. E ciò che gli staffieri che lo accompagnavano l’altro ieri nell’ultima ricognizione hanno notato è che Napolitano, prima di spegnere la luce e chiudere la porta, si è girato intorno e ha «salutato» la stanza con la mano. Proprio un ciao ciao al piccolo dipinto di Giovanni Fattori che sta accanto alla scrivania, al tavolo intorno al quale convocava le riunioni del mattino, alla copia della Costituzione sempre in vista su un leggio.
A quel «libro sacro» della Repubblica ha rivendicato di essersi tenuto fedele in ogni momento. Insomma, nella logica descritta da Vincenzo Cuoco durante la rivoluzione di Napoli del 1799, secondo cui «alla felicità dei popoli sono più necessari gli ordini che gli uomini»: e gli ordini – come ripeteva spesso pure Ciampi – sono naturalmente le istituzioni, che gli uomini devono tutelare con passione, virtù morali e impegno. L’impegno che aveva messo lui quando nel 2011 ha tenuto a battesimo il governo di Mario Monti e poi, una volta rieletto, quelli guidati da Enrico Letta e Matteo Renzi. Una «invenzione» del tutto sua il primo, mentre sugli altri due ha esercitato una sorta di alto patronato affidando loro la missione delle riforme.
Lo hanno criticato molto, anche per questo oltre che in certe battaglie sulla giustizia, ma ora il presidente non ci pensa. Scende nel cortile d’onore senza più pronunciare parole, concentrato sull’addio. Ed è qui che il suo sorvegliatissimo carattere e la sua autodisciplina a non mostrare le emozioni hanno un secondo cedimento. Sarà per gli onori del cerimoniale, che stavolta sono dedicati proprio a lui, sarà per l’inno di Mameli che echeggia da un’ala all’altra del palazzo, fatto sta che si commuove visibilmente. Tanto da abbandonarsi ad affettuosità che neppure i suoi più intimi collaboratori gli hanno mai visto fare. Li abbraccia e li bacia tutti, uno a uno. Distribuendo qualche pacca sulla spalla a chi di loro ha gli occhi lucidi e addirittura abbandonandosi a qualche carezza. E nella piazza del Quirinale, mentre la macchina scende verso il quartiere dove l’ormai ex capo dello Stato torna ad abitare, ha il risarcimento della gente comune, che lo applaude e grida il suo nome.