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 2014  dicembre 24 Mercoledì calendario

Palazzo Gangi Valguarnera a Palermo, la dimora del Gattopardo, è stato restaurato dai proprietari

Varcare la sua soglia è come entrare in un sontuoso paese dei balocchi, in un palazzo delle favole dove le porte sono d’oro, le decorazioni folleggiano in un tripudio di rococò, la Galleria degli specchi è una Versailles in miniatura, i lampadari di Murano pendono come «una foresta di stalattiti» e quello più grande «si curva alla maniera di un albero fatato», secondo lo scrittore francese Louis Bertrand. Uno scrigno di sculture, volte affrescate, lacche cinesi, porcellane. Non si fa fatica a immaginare gli occhi febbrili di Luchino Visconti che proprio qui, a Palazzo Gangi Valguarnera, volle girare nel 1963 la scena culto del suo «Gattopardo», quel ballo lungo 45 minuti in cui il mondo dell’aristocrazia siciliana si dissolve tra volteggiar di trine, guance incipriate e sguardi dardeggianti.
Lo splendore ritrovato
Adesso quella dimora nel cuore del centro di Palermo, in piazza Croce dei Vespri, è tornata a splendere dopo un restauro record con il recupero di due scalinate, degli 800 mq di tetti, delle diecimila mattonelle della terrazza, di 6 km di sete, degli affreschi di cinque volte, di 350 mobili. Un recupero portato avanti solo con finanziamenti privati dai proprietari, il principe Giuseppe Vanni di San Vincenzo e la moglie Carine, eredi di una dinastia nata con il principe Pietro di Valguarnera, che ebbe il palazzo a metà del Settecento impalmando la nipote Marianna (la «Marianna Ucria» cui Dacia Maraini dedicò un romanzo) e ne fece la rappresentazione della sua ascesa sociale.
Chiamò i migliori architetti e artisti siciliani, arruolò schiere di pittori, stuccatori, indoratori, mobilieri, intagliatori, marmorari. Il risultato è un palazzo delle meraviglie di ottomila mq che ha ospitato re Edoardo VII d’Inghilterra, la regina Elisabetta II, Renoir, Rossini, Bellini. A eccezione di qualche parte residua, restaurato pezzo a pezzo. «Ci abbiamo messo 15 anni e milioni di euro – racconta la principessa Carine – senza alcun aiuto pubblico. Siamo tornati a Palermo, io francese, mio marito da tempo a Roma, solo per salvare questa dimora che rappresenta un’arte di vivere ormai scomparsa».
Nella stanza dei suicidi
Lavori condotti da due restauratori toscani trasferitisi a Palermo, con l’apporto di vecchie sapienze artigiane, con ricerche in mezzo mondo di maestranze perdute come per la vetrata Liberty del cortile, «recuperata da un’impresa tedesca, perché qui non sapeva farlo più nessuno», racconta la principessa.
Lo scalone e l’infilata dei saloni sono un inno alla poetica barocca, e poi rococò, dello stupore. Dall’antisala che mostra i ritratti degli antenati con addosso i costumi esposti nelle vetrine – un bell’effetto di rimando tra realtà e rappresentazione – alla bizzarra «stanza dei suicidi» con la sua teoria di celebri morti della storia e del mito. E poi la camera da pranzo, ovale, elegantissima nel suo bianco e oro, la Sala Rossa con la volta affrescata a grottesche, gli intrecci floreali del Salone azzurro. Un’escalation che termina negli ultimi due ambienti: la sala da ballo che risplende di seta gialla, calcata da Burt Lancaster e Claudia Cardinale durante quel valzer interminabile, e infine la Galleria degli Specchi illuminata da un lampadario a 102 bracci, uno dei tre più grandi al mondo, che esprime il desiderio della famiglia di equipararsi al re. O forse agli dèi. Perché, per dirla con l’ironia amara del Gattopardo, «noi siciliani siamo dèi».