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 2014  dicembre 24 Mercoledì calendario

Il Natale a casa Dickens, un circolo per scrittori e fantasmi. Nel 1859 il romanziere inglese invitò i suoi amici letterati a scrivere un libro insieme. Una raccolta natalizia popolata di spettri terribili e buffi, con l’immancabile lieto fine

«Non fu nelle solite circostanze spettrali e neppure nel tradizionale contesto di fantasmi che vidi per la prima volta la casa protagonista di questo racconto di Natale». Così Charles Dickens, nel prologo a Le stanze dei fantasmi, una raccolta a più mani pubblicata la prima volta il 13 dicembre 1859 nel numero speciale natalizio del settimanale inglese All the Year Round, e mai tradotta per intero. I soli racconti scritti da Dickens (tre) erano già noti al pubblico italiano, ma non quelli degli amici che lo scrittore coinvolse in questa avventura, tutti nomi importanti della grande stagione vittoriana e tutti, come lui, sedotti dagli spettri.
Il quadro d’insieme (nella bella edizione di Del Vecchio, quasi una strenna) è nello stesso tempo inquietante e, a tratti, esilarante. Sono infatti piuttosto bizzarri i fantasmi evocati da una brigata di amici che, tra Natale e l’Epifania, si attesta in una inquietante magione e, come in un Decameron ottocentesco, lontano dal mondo, compie un viaggio nel mistero. Punto d’arrivo, la shakespeariana «dodicesima notte», ovvero quella dell’Epifania. Prima bisognerà trascorrerne parecchie in stanze infestate, gravate da cupe leggende: tra brividi e sorrisi, soprattutto per quanta riguarda Dickens, autore meravigliosamente in grado di giocare con strazio e ironia.
I suoi fantasmi sanno essere terribili e buffi. Si concedono per esempio qualche sciocchezza di troppo, come quando storpiano modi di dire popolari. Già sul treno che lo condurrà alla casa stregata, il narratore principale viene a sapere dal compagno di scompartimento, un tipo dotato di «un numero spropositato di gambe e tutte troppo lunghe» intento a prendere appunti su messaggi provenienti da misteriose voci senza corpo, che una di queste gli ha autorevolmente comunicato «meglio un uovo oggi che una pallina domani» (complimenti alla traduttrice, Stelia Sacchini).
Possono, altrettanto efficacemente, spaventare a morte: perché proprio come in quelli che visitano l’avaro Scrooge nel più celebre Racconto di Natale, sorgono dalle tombe del passato e della memoria, non dal rimosso. Appartengono intimamente a colui che ne viene visitato, come per esempio il fantasma del signorino B, nel racconto omonimo scritto da Dickens, che appare nello specchio del narratore mentre questi si rade e di conseguenza lo considera un barbiere di spettri. Al di là della gag, la costringe a un viaggio a ritroso nell’infanzia, come uno psicanalista ante-litteram.
A differenza poniamo di Henry James (i cui fantasmi sono obbiettivamente di una straordinaria cupezza) Dickens è sempre scettico e appassionato. Lo era anche nella vita «reale» (se si può usare un termine del genere per uno scrittore): spese ad esempio energia notevoli per «curare» con trance e ipnosi la moglie di un amico, il banchiere svizzero Emile de la Rue, che soffriva di turbe nervose. Vi si dedicò a Roma, nel 1845: la addormentava e la interrogava sulle sue fantasie, che vertevano su fantasmi terrificanti e persino maneschi, in grado di causarle veri lividi. Furono mesi di follia a due e di notti febbrile. Lei nel sonno indicava allo scrittore i luoghi di Roma da evitare perché «abitati» dal male, e ancora a distanza di tempo i due avevano appuntamenti vagamente telepatici e snervanti.
Nulla di simile per il Natale 1859. Il male latita, viene domato, dal direttore e dalla sua orchestra di grandi solisti: Hesba Stretton, George Augustus Sala, Adelaide Anne Procter, Wilkie Collins, Elizabeth Gaskell. La prima è una famosa scrittrice per bambini, il cui fantasma è un’eroina romantica. Sala, figlio di un impresario teatrale di origine italiana, braccio destro di Dickens, è più scanzonato, inventa il «fantasma della febbre gialla» e tra sogno e realtà costruisce una storia farsesca.
La Procter è una poetessa, molto cara alla regine Vittoria, e da par suo costruisce una lunga ballata su una suora che si sdoppia tra il sé innamorato in fuga dal monastero, e il sé devoto, che resta al proprio posto fino al ricongiungimento finale. Magari un po’ zuccherosa, ma è pur sempre Natale. Niente di simile per Wilkie Collins, riconosciuto precursore di Sherlock Holmes. Tra avventure marinaie e guerresche, il fantasma è in questo caso quello di un candeliere, che tormenta un intrepido marinaio col ricordo di un pericolo estremo, cui sopravvisse a stento. Elizabeth Gaskell, grande amica e poi biografa di Charlotte Brontë, narra una favola nera, nerissima. Il fantasma è quello di un giudice, che condanna l’imputato sapendo che i genitori ne moriranno di dolore.
Questi spettri possono essere capiti ma non esorcizzati. Sono la realtà, e ne portano il peso. Sarà anche Natale, ma il lieto fine non pare assicurato, a meno di un intervento del deus ex machina, che in questo caso è ovviamente Dickens. Tocca a lui il colpo a sorpresa, col suo racconto conclusivo. Nell’ultima «stanza» sarà infatti un tenerissimo pensiero d’amore a tenere piacevolmente sveglio l’ospite, un brillante marinaio innamorato della sorella del padrone di casa e ricambiato. Presto si celebreranno giuste nozze. Il direttore d’orchestra ha fatto buona guardia.