Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  dicembre 24 Mercoledì calendario

Ha ragione da vendere Renzi quando dice che nel caso dei marò «è stato fatto un terribile pasticcio con errori grossolani». Ma gli errori, sia politici che procedurali, si inseriscono su uno sfondo comune, l’incomprensione dell’interlocutore indiano, delle sue priorità, del suo modo di procedere

«È stato fatto un terribile pasticcio con errori grossolani». Come si fa a dare torto alla lapidaria definizione che il presidente del Consiglio italiano, Matteo Renzi, ha dato del «caso marò»? Ma gli errori, sia politici che procedurali, si inseriscono su uno sfondo comune, l’incomprensione dell’interlocutore indiano, delle sue priorità, del suo modo di procedere.
In politica, in una controversia giudiziaria e persino nel gioco delle carte la cosa più importante è capire chi ci troviamo di fronte. Sembra evidente che nel «caso marò» proprio non lo abbiamo capito.
Cominciamo dal versamento di una somma di denaro alle famiglie dei due pescatori. Per noi si sarebbe dovuto interpretare come un gesto nobile ed umanitario, compiuto in via unilaterale e senza che ciò comportasse il riconoscimento di una responsabilità. Per gli indiani, sempre pronti a reagire all’altrui mancanza di rispetto, il gesto risultò invece offensivo («ci vogliono comprare»), oltre che contraddittorio rispetto a un atteggiamento italiano che in quella prima fase consisteva addirittura nel negare la presenza della «Enrica Lexie» nel luogo dell’incidente.
A questo va aggiunto che puntare la nostra linea difensiva su una questione di competenza territoriale ha significato focalizzare la discussione su un terreno su cui gli indiani, ombrosissimi custodi della propria sovranità, potevano solo irrigidirsi.
Ben più promettente sarebbe stato spostare il discorso sul rapporto fra i due Stati, affermando fin dall’inizio – e non, come si è fatto, quasi in via subordinata all’interno di un procedimento indiano che abbiamo di fatto accettato – l’immunità funzionale di due militari in servizio. Senza limitarsi a negare la competenza indiana, si sarebbe dovuto rivolgere contestualmente l’invito ad affrontare la controversia fra Roma e New Delhi. In altre parole, il discorso avrebbe dovuto essere: «I fatti andranno chiariti, ma se verrà provata una responsabilità si tratterà della responsabilità del governo italiano e non dei suoi militari». Spostare un’eventuale responsabilità – alzandola di livello – piuttosto che negarla: gli indiani questo potevano, e forse possono ancora, accettarlo.
Ma anche a livello politico il nostro comportamento rivela una incomprensione di fondo. Certo, il governo di un partito, il Congresso, presieduto dall’«italiana» Sonia Maino non poteva permettersi di apparire come indulgente con l’Italia. Ma questo non significa che si potesse dare per scontato che il nazionalista Modi, nuovo Primo Ministro, avrebbe dimostrato una linea meno intransigente. Non solo siamo di fronte, anche in India, a un rapporto non certo lineare fra esecutivo e magistratura (un terreno in cui l’influenza del governo, quando si esercita, non può certo essere scoperta), ma avremmo dovuto chiederci che cosa Modi avrebbe potuto ricavare, sul piano politico, da un’azione tesa a risolvere il caso in modo accettabile per l’Italia. Un’azione comunque non facile per chi proviene da un movimento nazionalista radicale. Qui va poi introdotto un elemento che precede di molto il «caso marò»: il fatto che l’India – che si vede come Grande Potenza emergente – ritiene di non avere avuto dall’Italia la sufficiente attenzione. Va detto, al di là delle sensibilità indiane, che siamo in presenza di dati obiettivi quali le scarse visite di Stato e ministeriali, e anche rapporti economici molto al di sotto delle potenzialità delle economie dei due Paesi.
Non si conta perché si fa la voce grossa, ma quando si ha una grossa presenza. E soprattutto quando si capisce esattamente con chi abbiamo a che fare.